Giovanna Zangrandi20 gennaio 1988, addio a Giovanna Zangrandi. Per ricordarla, lo scorso anno il CAI ristampò Il campo rosso: cronaca di un’estate 1946, Ponte alle Grazie diede alle stampe (sempre in collaborazione con il Club Alpino Italiano) I giorni veri: 1943 – 1945, Monterosa edizioni editò i suoi racconti Non voglio comandi, non voglio consigli. Racconti di una vita libera e infine fu la volta dell’accurata biografia di Anna Lina Molteni Lo specchio verde. I libri e le montagne di Giovanna Zangrandi.
Tra le montagne del Cadore e d’Ampezzo, Alma Bevilacqua, la futura scrittrice Giovanna Zangrandi, non arrivò per caso, ma per scelta di vita.
Nata nel 1910 a Galliera, nella pianura attorno a Bologna, le aveva frequentate regolarmente insieme alla madre durante le vacanze, praticando presto l’alpinismo e lo sci. Dopo la laurea in chimica e l’abilitazione come farmacista, era diventata assistente alla Facoltà di geologia, ma nel 1937 decide di trasferirsi a Cortina, dove insegna Scienze naturali nel locale istituto Antonelli. Da questo momento, la montagna non è più il luogo delle vacanze e delle “pazze scalate con la ghenga di amici cadorini (…) in compagnia di ragazzi montanari, per alcuni dei quali la roccia era già una ragione etica”, ma il suo habitat naturale, vissuto come “un mondo dove cessano alcune schiavitù (…) fuori dai fondovalle e dalle sue trappole” . Nei primi anni ampezzani pratica l’alpinismo e allena la squadra di sci femminile di Cortina, coltivando anche l’interesse per la flora, la fauna e la geomorfologia delle Dolomiti. Scrive di montagna sulle riviste bellunesi: Cadore, Cortina, Dolomiti e l’altoatesina Atesia Augusta. È affascinata anche dalle tradizioni locali, e comincia a recuperare storie e leggende, che poi confluiranno nel suo primo libro, edito nel 1951: Leggende delle Dolomiti (L’eroica – Milano).
L’armistizio dell’8 settembre 1943 rappresenta lo spartiacque nella sua vita. Aderisce alla Resistenza per una scelta etica e civile, per amore di libertà più che per convinzioni politiche. Nell’agosto del 1944 abbandona Cortina e sale in montagna per sfuggire alla cattura dei repubblichini che l’hanno ormai schedata. La montagna diviene rifugio e luogo d’azione. Con il nome di battaglia di Anna è aggregata alla brigata Pier Fortunato Calvi, che opera in Cadore, in Val d’Oten, sotto l’Antelao e tra le Marmarole. Diciotto mesi di trasferimenti, di salite e discese, con il buono e il cattivo tempo. Grazie alle sue competenze di chimica e di geologia è in grado di maneggiare e posizionare gli esplosivi, riesce a redigere con precisione mappe topografiche, conosce la composizione delle rocce e ne valuta resistenze e fragilità, lo stesso vale per i materiali dei ponti e dei passaggi da minare. I luoghi le sono familiari ed è una guida sicura per i partigiani che provengono da altre zone. Trascorre l’inverno del 1944, ricordato per il grande gelo e le possenti nevicate, all’addiaccio, sotto il precario riparo di un landro, una roccia strabordante, in un minuscolo capanno di legno. La montagna dei diciotto mesi di guerra partigiana è fatica al limite delle proprie forze, freddo, fame, paura, confronto con la violenza e la morte, raccontati ne I giorni veri, il suo libro più noto, pubblicato nel 1963 da Mondadori. Negli stessi anni di Una questione privata di Beppe Fenoglio (1963) e di I piccoli maestri di Luigi Meneghello (1964): tre libri accomunati da una visione vera e antiretorica della Resistenza, raccontata con i fatti e con uno stile narrativo originale. Giovanna non dimenticherà mai quei giorni veri tra le montagne: per le sofferenze viste e vissute, per la sensazione di libertà, per la speranza in un futuro migliore, più giusto.
A guerra terminata, nel 1946, dopo aver rinunciato a tornare a insegnare, risale in montagna per costruirvi un rifugio: l’Antelao. Il luogo prescelto è la sella di Pradonego, un valico a ridosso del monte Tranego, a 1.796 metri; da lì si vedono le Marmarole, le cime del lontano Comelico, gli aguzzi Spalti di Toro, i bastioni argentati dell’Antelao. Sono gli stessi luoghi della Resistenza e la scelta non è casuale. Costruire il rifugio significa tenere fede alla memoria di un progetto condiviso con l’uomo che amava, Severino Rizzardi, uno dei comandanti della Brigata Calvi, ucciso in un agguato ad Auronzo il 26 aprile del 1945, a guerra quasi conclusa. Vorrebbe chiamarlo “Ai Ghiacciai di Antelao”, per la bellezza dei possenti nevai gelati di quella montagna, ma poi sceglie il nome Rifugio “Antelao”. Lo gestisce per qualche anno, finché le difficoltà, soprattutto economiche, la costringono a rinunciare e a cederlo al CAI di Treviso, che ne è tuttora il proprietario. Dei ghiacciai, a causa dei cambiamenti climatici, non è rimasto quasi nulla, ma la bellezza del valico e degli alti orizzonti che lo circondano è sempre la stessa.
Il Rifugio Antelao, sullo sfondo le Marmarole © Giuseppe MendicinoTorna a Cortina, poi nel 1957 si trasferisce a Borca di Cadore, e lì resterà sino ai suoi ultimi giorni. Per mantenersi accetta lavori manuali di ogni genere, anche faticosi, ma nel contempo imprime alla sua vita una nuova svolta divenendo scrittrice, con lo pseudonimo di Giovanna Zangrandi.
Scrive racconti, romanzi, articoli per giornali e riviste, dove la montagna continua a essere l’ambientazione principale. Dalle Dolomiti delle leggende e del folclore popolare, alle valli dei Brusaz, romanzo popolato di figure femminili indimenticabili, che le vale il Premio Grazia Deledda 1954, fino a Il campo rosso, edito da Ceschina nel 1959, Premio Bagutta, ripubblicato dal CAI nel 2022, dove racconta l’avventura del Rifugio Antelao.
Scrive anche molti racconti, nei quali, con il suo stile vivido, guidato da uno sguardo acuto e dalla volontà di “far vedere” più che di raccontare, rigetta la concezione dell’alpinismo come ostentazione di abilità e della montagna come un Eden o una cartolina illustrata per turisti frettolosi. Ne sottolinea il degrado ambientale, la speculazione edilizia e impiantistica che distrugge antichi borghi e stravolge il paesaggio. Lo stesso grido d’allarme di Dino Buzzati: “Sono montagne (le Dolomiti) delicate, basta poco a deturparle, un giorno pagheremo il conto”.
L’amore per la montagna e il desiderio di salirla non vengono meno neppure negli anni difficili e tristi della malattia, un lento calvario iniziato nei primi anni Sessanta e proseguito fino alla morte nel 1988. Per chiunque ami la montagna viene prima o poi, con gli anni, il tempo dell’addio alle salite, ma per Giovanna quel giorno arriva troppo presto, a causa del morbo di Parkinson. Così si confida con l’amico Adolfo Balliano del GISM: “Ora so che in montagna non andrò più, che con gli sci non andrò più, che quello che una volta era un corpo d’atleta non servirà più (…) nella mia vita ho sempre guardato in faccia la realtà: l’ho misurata quando potevo andare in roccia, misuravo gli appigli e le distanze, e quella scuola mi ha insegnato a guardare in faccia anche altre misure e altre distanze, anche il vuoto”.
Contro la dimenticanza della storia e di ciò che è stato, contro la retorica di certe cerimonie istituzionali, leggere i libri veri di Giovanna Zangrandi conforta il nostro bisogno di libertà, di montagne da vivere e preservare, per goderne appieno la bellezza e lasciarle poi a chi verrà dopo di noi.
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