La forza di reagire. Intervista a Marianna Corona

Il primo romanzo della figlia di Mauro è un fantasy dove sublima la paura per il futuro e mette tutta la sua voglia di tornare a vivere.
Marianna Corona

Il primo romanzo di Marianna Corona, Le Véinte. Le streghe del vento (pp. 192, 18 euro, Giunti 2024), pesca nell’immaginario fantasy-thriller: la storia è quella di una giovane donna attratta dalla ricerca delle proprie origini dopo la morte della nonna, nel paese inventato di Rodíssaluna, dove in autunno le Véinte Girovaghe, streghe-sciamane che incarnano le forze degli elementi e della Natura, arrivano a praticare i loro incantesimi. L’inverno è alle porte e il paesino si prepara a proteggersi dal gelo: gente semplice, unita nel comune tentativo di portare avanti le proprie tradizioni. Antiche leggende e storie passate di una misteriosa levatrice svanita nel nulla si intrecciano quasi ad impedirlo, fino alla soluzione finale. Il tema di fondo è lo squilibrio fra uomini e natura, ma emerge anche il contrario: quando il conflitto che caratterizza il mondo degli uomini coinvolge le forze della natura, si capisce come una vera armonia sarà possibile solo quando entrambe le parti saranno in pace con se stesse. È lì che si inserisce il filone della ricerca delle proprie origini: solo conoscendo se stessa la protagonista capisce dove vuole andare e soprattutto dove vuole stare, per cosa vale la pena lottare. Alle radici non si sfugge. Ogni scelta che compirà seguendo il suo istinto la avvicinerà al centro profondo della sua anima. 

Tutto un altro libro rispetto a Fiorire tra le rocce(Giunti 2023), l’autobiografia in cui Marianna Corona ha raccontato della sua malattia, il tumore al colon, uno spartiacque per lei che da allora, complice anche la pandemia, si è rifugiata nel suo paese natale di Erto, dove vive e insegna yoga. Il 22 settembre sarà a Pordenone Legge per la presentazione di lancio del libro, insieme a suo padre Mauro Corona, che ha in uscita Lunario sentimentale (Mondadori), e la giornalista Melania Lunazzi. “Sono cinque anni che non esco, nemmeno per una pizza, sarà come un ritorno in società”, confessa con timore, ma anche gioia. “Ho sempre scritto, ma non avrei mai pensato di pubblicare, con un padre scrittore. Dopo la malattia mi sono detta: è il momento di buttarmi”.

 

Marianna Corona, il suo esordio narrativo si avvicina a un fantasy, era nei piani fin da subito?

Fantasy, thriller, di sicuro è dark, molto diverso dall’altro libro. Non ce lo avevo in progetto, è venuto man mano che mi preoccupavo sempre di più nella vita, del futuro, ho faticato a infondere nella trama una nota di speranza. Ho veicolato nella scrittura questa mia visione catastrofica, anziché proiettarla nella realtà e crearmi stati di ansia. Poi però non ci dormivo la notte: ingenuamente, pensavo che inventare una storia fantastica fosse più semplice che raccontare di sé, invece sono finita a riscrivere questo romanzo tre volte. Ma alla fine è andata.

L’ambientazione è fantastica, ma profuma di Dolomiti, le montagne di casa.

Il lettore più attento scoverà luoghi reali, anche se un po’ camuffati e in effetti difficili da raggiungere, io avevo bene in mente a cosa ispirarmi, come quando descrivo le ammoniti o dei sassi in un punto preciso. Rodíssaluna esiste davvero, anche se non si chiama così.

Il tema portante è un rapporto corrotto fra uomo e natura: le preoccupazioni di cui parla riguardano l’ambiente o qualcosa di più profondo?

Se si riferisce alla malattia oncologica, mi ha lasciato più paurosa e più ansiosa di prima. Non sono mai stata una coraggiosa, in montagna non mi piace avventurarmi, ci sono sempre andata cercando di tutelare al massimo me e chi mi accompagnava, anche per una semplice camminata. Ma mettendo la protagonista di fronte a scelte difficili ho voluto infonderle un tratto che ho sviluppato con la malattia: la forza di reagire. A volte viene meno, anche io ho faticato a trovarla: ho vissuto proprio male la malattia, ma l’ho capito dopo, fingevo che andasse tutto bene perché non volevo far preoccupare troppo chi mi stava vicino. Un paio di anni dopo ho dovuto curare un disturbo d’ansia. Però è allora che ho sviluppato la capacità di andare avanti lo stesso, tornando a fare le cose di sempre, con uno sguardo diverso. 

La protagonista, in questo romanzo tutto al femminile, si appella spesso a sua nonna. Anche lei ha una figura di riferimento?

I miei riferimenti di casa sono tutti femminili. La parte artistica è arrivata da mio padre, ma quando si trattava di venirmi a prendermi a scuola e prepararmi il pranzo c’era mia nonna. Lei, mia mamma, le mie zie mi hanno sempre insegnato a essere indipendente, ad avere un lavoro per non dipendere economicamente da nessuno. Sono figure che ho idealizzato, soprattutto le mie bisnonne che giravano l’Italia a vendere manufatti di legno. Mi piace molto andarmi a guardare le vecchie foto in soffitta, sbirciando queste vite lontane. Purtroppo delle bisnonne non ho trovato molto, le mie zie erano molto giovani e non ricordano più di tanto, quindi rimango con questo alone di mistero a cui sono affezionata.

La ricerca delle radici che intraprende la protagonista è un po’ la sua allora?

Sì, anche perché bisogna ricordare che Erto ha una storia particolare. Mia nonna materna ha perso cinque fratelli nel Vajont, uno aveva una bimba di sei mesi, anche lei morta lì, sono tutte vite di cui si ha una sola fotografia in un sacello commemorativo e mi capita spesso di pensare a come sarebbe andata se avessero evacuato il paese. Sento molto la ricerca delle radici, perché è come se mi mancasse un pezzo: il Vajont è stato un taglio netto, una ferita che si poteva evitare, si fatica a farsene una ragione.

Riesce a parlarne con suo papà?

Con lui sì, un po’, mia nonna materna invece ne parlava poco. Però tutte le persone che vivono qua bene o male credo che sentano il richiamo delle loro radici, quando pensano che un pezzo di paese è stato lacerato dal giorno alla notte. Io ci penso spesso, a dir la verità. Il Vajont per me è sempre stato presente, fin da piccola. C’è una ritualità qui, portare le candele, visitare i sacelli, abbiamo ancora la diga intatta qua sopra (il 22 settembre prossimo si tiene la consueta “Pedonata del Vajont”, una manifestazione commemorativa in vista del 9 ottobre, NdR). Di Vajont non se ne è mai non parlato, anzi, e l’indignazione per questa tragedia è sempre stata trasmessa e raccontata, nascono di continuo progetti culturali.

Per le Véinte a cosa si è ispirata?

C’è un bosco, in Val Zemola, dove si avvertono delle presenze. Quando vado a camminare lì e nei dintorni della Casera Galvana, che è ristrutturata ma non abitata (ne parla anche mio papà in più di un libro), io mi sento osservata e inquieta, e non succede solo a me. Quella valle ha qualcosa di particolare. Allora ho pensato di tirarci fuori una storia. Le Véinte rappresentano la parte più irruenta della natura, hanno una doppia valenza, di terrore e accoglimento.

Va ancora ad arrampicare?

L’ho fatto per anni, ora non più. Mi piaceva, ma mi irrigidiva. Dopo la malattia oncologica ho capito che dovevo fare l’esatto opposto: sciogliere, tirare fuori, anche caratterialmente. Magari non è casuale che il tumore mi sia venuto proprio lì. Anche tutte le pratiche di meditazione yoga ora le faccio per questo, mentre all’inizio lo yoga per me era solo sforzo, facevo questi asana per molte ore al giorno, anche se ero stanca. Il nostro organismo è fatto per buttare fuori, quello che tratteniamo diventa tossico. Con la malattia mi sono resa conto che fin da piccoli ci insegnano a forzare il corpo – e anche la mente – senza insegnarci il contrario: quando lo capisci è una vera liberazione. Mi chiedo se esiste un modo morbido di arrampicare, forse oltre un certo grado no.

Ha mai fatto yoga con suo padre?

Lui è abituato a forzare il corpo, stare fermo gli risulta difficile, ma gli ho insegnato a respirare col diaframma. Ha provato e mi ha detto che gli fa tornare la forza. Per il resto lui ha sempre seguito il suo intuito, l’arrampicata, la scultura, la scrittura. Io mi sarei avvilita se mio padre mi avesse impedito di seguire la mia strada, invece lui no.

Lo considera un esempio per lei?

Da lui abbiamo imparato a camminare sempre un passo avanti all’altro. Ci ha insegnato a sviluppare un rapporto profondo con la natura, anche se da piccoli lo prendevamo in giro, perché in ogni luogo iniziava a raccontare qualcosa… Ci ha sempre spronato a fare ciò che più ci piaceva. C’erano poche regole, potevamo dipingere i muri di casa come volevamo. Solo a tavola eravamo obbligati a mangiare riso integrale: lo faceva Manolo, e ho pensato che forse avrei arrampicato come lui. Però per sicurezza la prova l’ho fatta sul semplice…