L'ultima vetta: il Nanga Parbat invernale di Elisabeth Revol e Tomek Mackiewicz

L’epica e tragica impresa sul Nanga Parbat invernale del 2018 di Elisabeth Revol e Tomek Mackiewicz racconta di un trionfo effimero e di un sacrificio eterno, tra eroismo, ossessioni e un disperato soccorso nelle braccia della montagna.
Elisabeth Revol e Tomek Mackiewicz © Facebook Elisabeth Revol

Era il gennaio del 2018 quando impresa e dramma assumono in significato così forte e simile. Succedeva sul Nanga Parbat, la nona montagna del Pianeta. Da qualche giorno non si avevano più notizie della francese Elisabeth Revol e del polacco Tomek Mackiewicz. Sono gli unici alpinisti impegnati sulla montagna in quella stagione invernale, dopo che due anni prima Alex Txikon, Ali Sadpara e Simone Moro erano riusciti nella prima salita invernale. 

Entrambi conoscevano la montagna come le loro tasche, soprattutto nella stagione invernale, e puntavano a un obiettivo ambizioso: salire per un itinerario nuovo (l’allora incompiuta via Messner-Eisendle, sul versante Diamir), in inverno e in stile alpino. Elisabeth e Tomek si muovevano senza bombole di ossigeno e senza supporto di portatori. 

Per Tomek, il Nanga Parbat era un'ossessione; da anni sognava di raggiungerne la vetta in inverno, e questa spedizione, la settima per lui sulla montagna, avrebbe rappresentato il suo ultimo tentativo, ma ancora non lo sapeva. Per Elisabeth, scalatrice francese dallo stile puro, il Nanga Parbat era lentamente diventato un obiettivo da perseguire. Prima il tentativo sullo Sperone Mummery con Daniele Nardi, poi l’incontro con Tomek e quel sogno condiviso.

 

La vetta e il dramma

Il 25 gennaio 2018, Elisabeth e Tomek raggiunsero la vetta del Nanga Parbat, diventando i primi a scalarlo in inverno lungo una nuova via, in stile alpino. Fu un trionfo, ma breve. Già pochi passi sotto la vetta Tomek mostrò i primi segni di grave malessere: edema polmonare e forse anche cerebrale, causati probabilmente da una combinazione tra altitudine estrema e stanchezza.

Elisabeth, consapevole della gravità della situazione, tentò disperatamente di aiutare il compagno. Lo assistette, lo riscaldò, e lo incoraggiò a proseguire, ma le sue condizioni peggiorarono rapidamente. A un certo punto, Tomek non fu più in grado di muoversi. Così i due si rifugiarono in un crepaccio a circa 7200 metri di quota. Elisabeth, sempre in contatto con casa, aveva nel frattempo informato della loro situazione. Si stava mobilitando una macchina dei soccorsi, da tutto il mondo. “Mi è stato detto: se tu scendi a 6000 metri, possiamo recuperarti e possiamo recuperare Tomek a 7200 metri” raccontò. “Non è stata una decisione che ho preso, ma è stata imposta”.

A questo punto la scalatrice francese prense la più dura delle decisioni: lasciare il suo compagno. Prima di iniziare la discesa, un ultimo messaggio: “Ascolta, arrivano gli elicotteri nel tardo pomeriggio, sono obbligata a scendere, verranno a riprenderti”.

Denis Urubko, Elisabeth Revol e Adam Bielecki © Facebook Adam Bielecki

Il soccorso

La richiesta di aiuto di Elisabeth fu accolta da tutta la società alpinistica, ma anche e soprattutto dalla spedizione nazionale polacca impegnata in un tentativo invernale all’allora inviolato K2. Krzysztof Wielicki, il capospedizione e primo salitore dell’Everest invernale, diede immediatamente la sua disponibilità a un’operazione di soccorso. In breve si attivò una delle operazioni di soccorso più complesse e commoventi mai condotte in alta montagna.

Fu predisposto un tentativo di salvataggio sul Nanga Parbat, impiegando gli alpinisti presenti al campo base del K2. Un elicottero militare pakistano li avrebbe prelevati, per portarli alle pendici della nona montagna della Terra, sul versante Diamir. Da qui avrebbero risalito la via Kinshofer, lungo la quale stava scendendo la Revol, sperando di riuscire a raggiungerla per tempo.

Quando Wielicki chiese ai suoi uomini chi si volesse offrire volontario per questa operazione, nessuno si tirò indietro. Vennero quindi scelti dal capo spedizione Denis Urubko e Adam Bielecki. I due, come tutti, sapevano che le probabilità di successo di questa missione sarebbero state praticamente nulle, ma decisero comunque di provarci.

La squadra di soccorso fu trasportata in elicottero fino a circa 4900 metri di quota, nei pressi del campo 1 della via Kinshofer. Da qui Urubko e Bielecki iniziarono una salita notturna vertiginosa: in pieno inverno, sul versante Diamir, su una parete non attrezzata e con poche informazioni sulle condizioni, con difficoltà tecniche altissime. Salirono senza soluzione di continuità, superando in una manciata di ore circa mille metri di dislivello, fino a incontrare Elisabeth a circa 6100 metri. Stremata, la abbracciarono nella notte. Era congelata, esausta e quasi incapace di muoversi, ma viva.

 

L’addio a Tomek

Mentre Elisabeth veniva portata in salvo Tomek, a 7200 metri di quota, entrava nel cuore della montagna che aveva amato, quella che l’aveva stregato, la vetta che aveva inseguito per tutta la vita e che, infine, lo accolse tra le sue braccia glaciali. In quella mattina fatta di ghiaccio, tragedie e speranze il nome di quel polacco, che con il suo spirito libero, la sua determinazione incrollabile, aveva sognato di raggiungere la vetta invernale del Nanga Parbat, diventava una leggenda. Alla fine ci era riuscito a coronare quel suo sogno assurdo. Lui che aveva scelto, un giorno, di provare a scalare un Ottomila, e il Nanga, d’inverno, costava poco. Eccolo allora, ai piedi della regina delle montagne, con gli occhi pieni di sogni e lo sguardo che si perdeva nello spazio.