Tutti li conoscevano così: l’Omo e la Dona. Fianco a fianco in uno slancio geologico intimo, tenero e al contempo severo, come solo le verticalità delle guglie sanno essere.
Oggi la Dona è rimasta sola perché l’Omo, forse stanco di stare in piedi come un pennacchio, si è abbandonato alla forza di gravità accasciandosi al suolo con un frastuono che dev’essere stato spaventoso. Lei invece è ancora lì: svetta in quello spicchio di cielo che avvolge il Monte Plische (Gruppo del Carega, Piccole Dolomiti).
Tempo fa, in occasione di un crollo sulla Torre Venezia, mi capitò di leggere una riflessione molto cinica, nel suo realismo, che sostanzialmente sosteneva che il volto delle Alpi, a parte qualche rara eccezione, è opera di una formidabile scultrice: la natura. Quindi – proseguiva il ragionamento – è da sciocchi rammaricarsi di fronte a una frana, perché è una dinamica essenzialmente “naturale”.
Il volto delle nostre montagne in effetti è segnato da un’erosione ininterrotta, da uno sfaldarsi privo di pause. La forza di gravità, la forza della pioggia, la forza della neve, del ghiaccio e del vento, … le rocce prima o poi cedono, si sgretolano, capitolano.
Quella riflessione, proiettata a considerare il crollo come una semplice e asettica dinamica naturale, non teneva tuttavia conto dell'attribuzione di significato/significati che l’uomo solitamente conferisce al paesaggio e agli elementi che lo compongono, animati o inanimati che siano.
Così, quando essi scompaiono, si innesta un meccanismo emotivo in parte simile a quello del lutto, perché con quegli elementi si era creato un legame sentimentale; perché quegli elementi ci servivano per orientarci nella complessità del mondo.
L'unica a non stupirsi pare essere stata lei, la Dona: ferma, immobile, in attesa del suo destino.