Krzysztof Wielicki, i 75 anni di una leggenda vivente

Il compleanno dell'alpinista polacco, primo sull'Everest in inverno. Una specialità tutta polacca, quella delle grandi invernali sugli Ottomila.
Krzysztof Wielicki

Se pensiamo al grande alpinismo invernale, pensiamo ai polacchi: e fra questi Krzysztof Wielicki è una delle ultime leggende viventi. Nato il 5 gennaio 1950 a Szklarka Przygodzicka, a un’ottantina di chilometri a nord-est di Breslavia, vanta numerosi record di scalate, di cui la più simbolica fu la prima invernale dell’Everest, nel 1980, con Leszek Cichy. 

 

Da zero a Ottomila 

Quando nasce Wielicki, la Polonia, occupata dai Nazisti durante la Seconda guerra mondiale, si ritrova smembrata dai Sovietici. Nella popolazione rimane più vivo che altrove l’orrore dei lager, come quello di Auschwitz dove fu internato anche Primo Levi, costruiti proprio sul loro territorio: lo strascico morale di quell’eredità è così pesante da trascinarsi fino ai giorni nostri. Ma il piccolo Krzysztof cresce tutto sommato serenamente: è figlio del direttore della scuola locale e non deve, come gli altri figli di contadini, aiutare nei lavori dei campi, potendosi quindi permettere molto tempo libero. Ma non è così facile impegnarlo, perché le distrazioni sono proprio poche, soprattutto per un adolescente, non si respira la spensieratezza della ricostruzione che invece in Italia porterà agli anni del boom economico. E così, è la natura che gli fornisce una via di fuga: lui, nato nella pianura più piatta che si possa immaginare, si iscrive al Club Alpino locale e inizia a divertirsi con l’arrampicata. Si laurea in ingegneria, poi inizia a lavorare (per lo Stato, ovviamente), ma al contempo inizia anche a viaggiare con le prime spedizioni. Viaggiare, per un polacco di quel tempo, è un lusso che ben pochi si possono permettere: “Se nel 1972 a un giovane scalatore veniva proposto di fare un viaggio, non ci stava a pensar sopra”. È lo stesso Wielicki a raccontarlo nell’autobiografia La mia scelta (2019). Si ritrova a fare le vacanze in Caucaso per un paio di estati, fra il ’74 e il ’75, e le sue doti si fanno notare. Quel “giovane scalatore” è decisamente promettente, tanto che il Club Alpino gli propone di fare l’alpinista di professione. 

Dopo la prima invernale all'Everest. Archivio Krzystof Wielicki.

I grandi record

Le grandi occasioni si presentano in Himalaya e Karakorum. Non è solo una questione di alpinismo, Wielicki dimostrerà di possedere doti atletiche fuori dal comune, grazie alle quali segna dei record nei record. La prima invernale assoluta dell’Everest, il 17 febbraio 1980, con Leszek Cichy, per la spedizione guidata da Andrzej Zawada, dà il via a una carriera sfolgorante che proietta Wielicki nella hall of fame dell’alpinismo mondiale

Attaccare in inverno una montagna così grande, sconosciuta, con appena una piccola tenda a disposizione, sono cose che possono fare solo i polacchi.

È stato il quinto uomo ad aggiudicarsi la Corona dell'Himalaya, ovvero a salire senza ossigeno tutti i quattordici Ottomila. Tre in prima invernale: Everest, 8848 m (17 febbraio 1980), Kangchenjunga, 8586 m (11 gennaio 1986, con Jerzy Kukuczka) e Lhotse, 8516 m (31 dicembre 1988, in solitaria!).

Cinque in solitaria: oltre al Lhotse, Broad Peak, Dhaulagiri, Makalu e Nanga Parbat, che ritiene la sua impresa più importante. Al Broad Peak (8047 m) impiega meno di 24 ore per colmare i 3150 metri di dislivello positivo dal campo base avanzato alla vetta, quando ai tempi servivano 5-6 giorni. Sono le imprese su cui focalizza in un altro volume autobiografico intitolato, appunto, In solitaria (2023), dove spiega anche come non vi fu mai conflitto tra i suoi exploit individuali e i valori di fiducia e condivisione che caratterizzano l’alpinismo in generale, e sicuramente quello che visse con i suoi compagni polacchi. 

Da capospedizione, guida un tentativo dell’invernale al K2 nella stagione 2017/18: il resoconto di quella vicenda è documentato nel film The last mountain di Darius Zaluski, presentato al Trento Film Festival 2019: protagonisti con Wielicki sono Adam Bielecki e Denis Urubko. Ma quella spedizione ha un esito inatteso: non porta alla conquista della prima invernale al K2, bensì al salvataggio straordinario di Elisabeth Révol al Nanga Parbat, dove invece nulla si potè fare per il suo compagno Tomasz Mackiewicz, un neofita dell’ambiente alpinistico che evidentemente, da buon polacco, il gusto per le invernali se lo portava nel dna.

Con la fine degli anni ’80 la storia sta cambiando e l’alpinismo pure, gli sponsor iniziano a contare sempre di più, come pure il lato “performante” e spettacolare di questa attività. Anche se le prime invernali non spettano solo ai polacchi (fra l’altro, è l’italiano Simone Moro a detenere per sempre il record, con 4 invernali nel palmares), sono i nepalesi a chiudere il cerchio della rincorsa all’ultima salita simbolica a un Ottomila, il 16 gennaio 2021, con la guida del fuoriclasse Nirmal Purja, salito senza ossigeno.

A non cambiare è il valore di un’intera vita dedicata alle montagne del mondo, sancito nel 2019 con il Piolet d’Or alla carriera, l’Oscar dell’alpinismo. Nel 2018, con Reinhold Messner, gli era stato assegnato anche il Premio Principessa delle Asturie per lo sport, un riconoscimento di prestigio internazionale.

Con Kurt Diemberger al Trento Film Festival nel 2019, per la presentazione dell'autobiografia “La mia scelta”. Foto Pamela Lainati

Una specialità polacca

L’inverno è per definizione la “brutta stagione”, scrive Marco Albino Ferrari nell’introduzione all’autobiografia di Wielicki La mia scelta. Basta cambiare una “v” con una “f” per immaginarsi “l’inferno” che si trova in alta quota in quella stagione: 

Eppure, nella storia del rapporto uomo-montagna, c’è stato un passaggio in cui quell’inferno è stato cercato tenacemente. Gli inventori dello sconsigliabilissimo gioco fanno parte di un gruppo ristretto di polacchi mezzi matti, attivi a cominciare dagli anni Ottanta, e decisi ad andare incontro a sofferenze inimmaginabili mettendo in gioco la propria vita.

Polacchi “mezzi matti”, scrive il giornalista. In effetti, salire un Ottomila è già un’impresa, perché volerlo fare in inverno, quando per di più il freddo aumenta ulteriormente i problemi fisici legati all’alta quota? Ci voleva una motivazione fuori dal comune, come la tenacia e la determinazione a cui si accompagnava. I Tatra, le montagne più note della Polonia, basse ma in inverno decisamente impegnative, sono la palestra dove tutti si esercitano. Sulle Alpi arrivano in maniera quasi raffazzonata, con un’attrezzatura più che basica, semplici teli di plastica per rendere impermeabili gli indumenti e notti all’addiaccio che temprano la mente e il corpo, preparandoli per avventure ancora più grandi. Per citare Wielicki:

Wojtek Kurtyka ha coniato un giorno una bella espressione: “L’arte della sofferenza”. Se la sofferenza porta a realizzare i propri scopi, affrontarla può essere un valore.

Se scorriamo l’elenco delle prime invernali, capiamo dove portò quell’ambizione: negli anni ’80 i polacchi ne realizzarono ben sette. Quel decennio fu epoca di cambiamenti epocali per il loro Paese (e non solo), iniziati a settembre 1980 con la fondazione di Solidarność, il Sindacato autonomo dei lavoratori “Solidarietà”, da parte di Lech Wałęsa, e terminato con la caduta del Muro di Berlino, il 9 novembre 1989, con tutto quello che significò successivamente.

Dopo l’Everest del 1980, il Manaslu (8163 m) il 12 gennaio 1984 a opera di Maciej Berbeka e Ryszard Gajewski. Nel 1985 doppietta: il 21 gennaio Jerzy Kukuczka e Andrzej Czok sul Dhaulagiri (8167 m), per la “Via Normale”, e il 12 febbraio Maciej Berbeka con Maciej Pawlikowski sul Cho Oyu (8201 m). L’11 gennaio 1986 la già citata impresa di Kukuczka e Wielicki sul Kangchenjunga (8586 m) per la “Via Normale” sulla parete sud-ovest, purtroppo costata la vita al compagno Andrzej Czok, morto di edema polmonare. Il 3 febbraio 1987 ancora Kukuczka con Artur Hajzer sull’Annapurna (8091 m). Il 31 dicembre 1988 ancora Wielicki al Lhotse (8516 m), addirittura in solitaria. E ogni volta tornare a casa dalle proprie famiglie significava trovare una situazione economica e politica a dir poco critica.

Seguì una lunga pausa, interrotta da Simone Moro il 14 gennaio 2005 allo Shisha Pangma (8027 m), con Piotr Morawski. Non fu un exploit singolo, perché Moro proseguì la sua rincorsa il 9 febbraio 2009 al Makalu (8463 m), con Denis Urubko. La coppia funzionava così bene da aggiudicarsi anche il Gasherbrum II (8035 m), con l’aggiunta dell’americano Cory Richards: fu la prima invernale a una vetta del Karakorum. 

L’alpinismo invernale non era più un’esclusiva dei polacchi, che però tornarono protagonisti il 9 marzo 2012 al Gasherbrum I (8035 m), grazie a Adam Bielecki e Janusz Golab, in vetta per la “Via dei Giapponesi”. Ancora Bielecki insieme ai connazionali Maciej Berbeka, Tomasz Kowalski e Artur Małek salì il Broad Peak il 5 marzo 2013 per la “Via Normale” sul versante ovest. Berbeka e Kowalski non fecero ritorno: la vicenda è ripresa nel film Dreamland del figlio Stanisław Berbeka (2019), noleggiabile dalle Sezioni CAI tramite il prestito della Cineteca, un delicato e toccante omaggio a tutti i famigliari che non hanno più visto tornare i loro cari.  

Il Nanga Parbat capitolò il 26 febbraio 2016, ammettendo ancora Simone Moro con Alex Txikon e il pakistano Muhammad Ali Sapdara, mentre Tamara Lunger si fermò a poche decine di metri dalla cima. L’invernale più dura è stata quella al K2 che, come abbiamo già ricordato, arrivò il 16 gennaio 2021 con i 10 nepalesi.

Con Kukucka dopo la prima invernale al Kangchenjunga. Archivio Krzysztof Wielicki.

Non solo uomini: il film su Wanda Rutkiewitcz

Krzysztof Wielicki, Jerzy Kukuczka, Artur Hajzer, Maciej Berbeka, Wojtek Kurtyka, ma anche Wanda Rutkiewitcz. Non furono solo uomini i protagonisti della mitica stagione d’oro dell’alpinismo invernale polacco. Wanda fu la terza donna a scalare l’Everest (16 ottobre 1978), prima dunque dei suoi colleghi maschi, e la prima donna a salire il K2, nel 1986, senza ossigeno. Morì nel 1992 sul Kangchenjunga, il suo nono Ottomila. La sua è una personalità complessa che non passò mai inosservata nel mondo dell’alpinismo, sia per le notevoli capacità tecniche, sia per un carattere difficile. L’11 dicembre è uscito in Italia, distribuito da NFilm con il sostegno del CAI, L’ultima spedizione. Il mistero di Wanda Rutkiewitcz, il film di Eliza Kubarska, raffinata regista polacca, che racconta la sua vita, in particolare cercando di capire cosa successe al momento della sua morte. Tra gli intervistati non manca, ovviamente, anche Krzysztof Wielicki, che la conobbe bene.

La locandina del film.