© A. TorrettaAnna Torretta è stata la prima donna ammessa nella Società delle Guide Alpine di Courmayeur. Classe 1971, ha un passato da agonista nell'arrampicata su ghiaccio, disciplina nella quale ha conquistato diversi titoli italiani. Come alpinista ha nel curriculum salite estreme, anche solitarie, come la Nord delle Grand Jorasses per la McIntyre-Colton oppure Zodiac, su El Capitan, risolta in sei giorni. Anche sull'Ama Dablam (6582 metri) era da sola, vetta che ha conquistato nel 2006. Non è una “himalaista”, ma la sua partecipazione alla spedizione al K2 arricchisce la formazione di grande talento, tecnica e anni di dedizione alla causa femminile nell'alpinismo.
Come sei stata “inserita” in questa spedizione?
Conosco Maurizio Gallo da più di venti anni: mi ha contattato e mi ha proposto la cosa. Io non ci avrei mai pensato. Un po' perché non è tanto il tipo di alpinismo che amo: quei grandi campi base, tutta quella gente che sale...un po' perché ho sempre pensato che quella montagna fatta di fatica e meno tecnica sarebbe stato qualcosa per la mia “terza giovinezza”. Detto questo, sono molto contenta di andare, anche perché ho un solo tentativo a un Ottomila: il Cho Oyu nel 2010. Ero arrivata fino al campo due, volevo fare la discesa con gli sci dalla cima. Ma le condizioni non erano buone e sono dovuta scendere.
Una spedizione di questo tipo è impegnativa, anche per gli impegni familiari.
Non sono mai stata via così tanto tempo, quando le bambine erano piccole era difficile. Sono stata una volta in Cile per una cascata di ghiaccio, quasi un mese. Un'altra volta sono andata in Turchia, ma lì sono stata molto di meno. Ora le bambine sono più grandi: Petra ha 8 anni, Lidie 11. Posso vederla come una vacanza, ci penserà mio marito. Mi mancheranno, ma ci sarà la possibilità di sentirci. Ci sarà un po' da gestire il distacco, non sarà facile ma si può fare. Con la piccola dormiamo con un peluche che mi lascerà e lei ha una mia maglietta da indossare in mia assenza, una maglietta che non cambierà mai. Chissà come puzzerà al mio ritorno!
Gran Flambeau, Monte Bianco © Vertical Flow
Che idea ti sei fatta della spedizione?
È una spedizione commemorativa e quindi non ci sarà nessun exploit, anche se lo Sperone Abruzzi non è una via banale. Sarà importante il lato alpinistico, ma anche promuovere il lavoro femminile in montagna. Si tratta di un aspetto che mi ha sempre interessato.
Qual è la situazione attuale in Pakistan?
Che le donne non praticano alpinismo se non accompagnate dal marito, dal fidanzato. Non esistono donne portatrici. Samina (Baig, ndr) è la sorella di uno che ha un'agenzia e quindi è stata incoraggiata in famiglia, ma è un caso raro. L'idea è di parlare di questa condizione e vedere se aiuta a fare dei passi in avanti, a far capire che le cose possono cambiare. Già dieci anni fa Agostino da Polenza voleva organizzare una spedizione per il 60esimo, ma non è stato possibile e anche questa volta non è stato semplice.
Come vengono viste le alpiniste straniere invece?
Te lo potrò dire quando torno, io ho avuto esperienza in Afghanistan e devo dire che c'è stato un peggioramento delle condizioni. Negli anni '80 a Kabul le donne andavano in giro in minigonna, ora indossano il burka. Io ero stata nel Wakhan, avevo aperto una variante d'attacco a una via sul Baba-Tangi, ma se sei una straniera cambia il metro di giudizio: sei rispettata perché si soffermano sul lato lavorativo. La questione è diversa per chi vive lì e comunque c'è una certa differenza anche tra città e villaggi. Nei villaggi ci sono meno limitazioni, alla gente interessa poco. Forse è un approccio alla condizione femminile che viene in parte dal potere, la situazione non è facile da definire.
Che rapporto hai con l'alpinismo di fatica?
Come dicevo prima, non ho mai avuto un grosso interesse: non mi piace essere lenta, sentire il corpo che pesa, anni fa ho scritto che fare un Ottomila in fondo è come fare due volte scarse il Monte Bianco. E poi a me piace l'alpinismo tecnico, come sull'Ama Dablam. Ma ora sono curiosa di vedere come reagirà il mio corpo alla quota, sarà interessante. È una cosa molto golosa.
Tra le tue esperienze alpinistiche quali ricordi con più piacere?
Sicuramente la solitaria sul El Capitan, poi poche altre cose in particolare. Un paio di cascate di ghiaccio che per ingaggio ed esperienza mi sono rimaste. In Turchia per esempio, durante un meeting di arrampicata, abbiamo aperto una linea alta cento metri con Cecilia Buil (Anatolia Pillar, WI6) e siamo diventate le beniamine del festival, perché là non è una cosa usuale che due donne facciano un exploit del genere.
Oggi quanto conta essere guida alpina per te?
Io non ho fatto la guida alpina per portare la gente in montagna, volevo che venisse riconosciuto il mio merito. Ma la passione per l'insegnamento oggi conta tanto. E poi portare le persone a fare quello che amano è bello. In questi giorni ho fatto delle uscite di scialpinismo con un cliente molto allenato e siamo stati in posti dove non c'era nessuno. Fare la guida è anche riuscire a fare vedere una “montagna diversa” alle persone.
Nel nostro alpinismo c'è ancora disparità?
Se pensi che in Italia e comunque in altri paesi d'Europa le donne sono il 2 o 3% del totale, significa che ancora c'è da lavorare sull'accesso alla professione. Quando ho voluto diventare istruttrice è passata gente con votazioni più basse. Credo che sia sia ancora del maschilismo, se sei più forte di un uomo non viene riconosciuto. Poi ci sono ambiti come l'arrampicata sportiva dove forse la parità è stata raggiunta. Ma dove entra in gioco la professione è diverso, forse anche perché le donne devono sentirsi più sicure di un uomo prima di ritenersi pronte, rispetto a un uomo.
Guarda la video intervista ad Anna Torretta, realizzata durante la stage al Monte Bianco delle alpiniste della spedizione K2-70: