Incontri di alpinismo. Tamara Lunger, una nuova vita oltre l'alpinismo

L'altoatesina ha intrapreso un progetto per portare l'arrampicata in Pakistan, in ricordo di JP Mohr. «Sento il bisogno di fare cose diverse, di non pensare solo ai risultati"

Fino a pochi anni fa Tamara Lunger aveva una esposizione mediatica piuttosto importante: l'alpinista altoatesina era stata coinvolta in diverse spedizioni agli Ottomila e dopo la salita al K2 senza ossigeno nel 2014 - a soli 28 anni-, la sua carriera sembrava destinata tout court all'alpinismo d'alta quota. Nel 2021 però, il tentativo al Chogorì in invernale si è trasformato in una tragedia affettiva: la perdita di JP Mohr, con cui Tamara aveva una relazione, è stato il momento in cui Lunger ha deciso di dare uno stop alle proprie salite. Nel frattempo ha iniziato un progetto dal nome Climbing for a reason, per portare l'arrampicata nella Shigar Valley, in Pakistan. «Era un progetto di JP, di cui mi aveva parlato, qualcosa che avremmo voluto fare insieme. Purtroppo lui ora non c'è più, ma ho voluto comunque portarlo avanti. Abbiamo iniziato tre anni fa, la mia idea era di insegnare alle ragazze, perché ho viaggiato tanto in Pakistan, ma le donne lì rimangono sempre nascoste. Volevo fare capire loro che un altro modo di vivere è possibile, che nella vita è giusto avere dei sogni e che se ai sogni unisci il duro lavoro, le cose diventano possibili. Che vivere non è solo procurarsi il cibo per mangiare. Certo, quello è fondamentale, ma esiste qualcosa anche oltre».

 

È stata un'esperienza difficile? Hai sentito la distanza culturale?

Sì. C'era sempre qualcosa che non andava. Abbiamo costruito un pannello per l'arrampicata, una sorta di muro artificiale in legno per permettere di fare boulder ai ragazzi e alle ragazze delle scuole, ma era difficile anche solo recuperare il legno, trovare collaborazione per le cose più semplici. Tre anni fa siamo saliti da Islamabad con due ragazzi che avrebbero dovuto darci una mano, uno era tra i più forti scalatori del Paese, ma anche lì non è stato semplice. Uno di loro aveva la barba, era di una etnia differente, ed è diventato difficile avere i permessi. E poi c'è tutta la questione legata al genere: le bambine a nove anni sono considerate già donne, viene attuata una separazione dei sessi che pervade ogni ambito. E così anche nell'arrampicata uomini e donne non possono stare insieme. Le donne non si possono cambiare nemmeno i pantaloni in presenza di membri della famiglia. Tutto è molto complicato e diverso rispetto a qui, il corpo è un taboo in ogni sua espressione.

 

Lezioni di arrampicata in Pakista © Tamara Lunger


Sei tornata quest'anno, cercando di superare la tentazione di mollare la presa.

Mi sono detta che volevo andare in fondo a questa cosa, nonostante le difficoltà. Abbiamo cambiato anche tipo di approccio, lavorando con ragazzi più giovani e ci è stato permesso di tenere insieme bambine e bambini. Qualcosa del nostro messaggio un po' alla volta forse sta passando. Eravamo assistiti da una ragazza, Anita, che è del posto ma parla la lingua urdu oltre che l'inglese e stiamo provando a fare un passo alla volta.


Hai frequentato il Pakistan per lungo tempo, anche per motivi diversi.

Sono rimasta a fare hike and fly, salivo le montagne per poi volare con il parapendio. Il mio amico Aaron Durogati aveva esperienza del posto, mi aveva detto di stare attenta alle condizioni che avrei trovato. È tutto diverso rispetto a qua, lì si possono formare cumulonembi enormi, che vanno a bucare la stratosfera e che ti portano molto su. Un giorno ho pensato che non sarei riuscita ad atterrare mai più (ride, ndr). Ero nella zona di Karimabad, siamo saliti anche fino a quota 4mila200. Non ho trovato un gran meteo, ma comunque qualcosa sono riuscita a fare.

 

Il parapendio per te non è solo una passione, è anche una cura?

In un certo senso sì. Dopo il K2 ho iniziato ad avere paura di tutto: di salire le montagne, di andare in bici, di sciare. Avevo paura di morire per ogni attività e così mi sono detta di prendere quella che mi faceva più paura e di viverla fino in fondo. Senza imposizioni, ma in maniera sincera. È qualcosa che mi serve per un percorso che sto facendo, sto diventando anche allenatrice di rigenerazione.


Stai indagando i tuoi confini e vuoti interiori?

Da noi c'è molta gente che soffre di burnout e depressione. Io stessa vengo da una vita così, in cui ho voluto sempre di più, avevo tanti obiettivi da raggiungere. E questa cosa mi ha portato tanto dolore. Ho sempre voluto comandare sul mio corpo, nel periodo degli Ottomila avevo un obiettivo chiaro, ma i metri di dislivello che facevo per allenamento non erano mai abbastanza. Ero diventata lo schiavo della mia mente. Il K2 mi ha dato una bella frenata, quando capitano certe cose forse non è un caso, bisogna imparare ad ascoltarsi. Ora continuo a scalare, sciare e a fare ghiaccio, ma ho bisogno di semplicità, solitudine e vivere la montagna come deve essere, un modo per volermi bene.

 

Sul Gasherbrum nel 2020 © Matteo Pavana


La passione per gli Ottomila non è tramontata però.

Ancora quando ne parlo mi si illuminano gli occhi, sento che c'è qualcosa dentro di me per quei luoghi. Ma ora non è il momento di tornare e poi non mi piace quello che vedo. Credo che bisognerebbe andare là con una certa purezza nell'animo, semplicità e rispetto per quella che è la casa degli dei. Invece vedo un approccio sempre più commerciale, spedizioni enormi e gente che calpesta chi sta male per salire. Episodi come la morte di Mohamed Hassan, nel disinteresse generale, non sono tollerabili.


Sei stata una scialpinista di altro livello: campionessa italiana e mondiale, vincitrice del Pierra Menta in un triennio d'oro, tra 2006 e 2008. Nasce lì la tua passione per la montagna?

È nata quando i miei avevano in gestione il rifugio Santa Croce di Latzfons: vedevo sempre le Dolomiti di fronte a me e un giorno ho detto a mia mamma che mi sarebbe piaciuto andare in montagna. Lei mi rispose che c'ero già, ma in me era nata la voglia di conoscere quel mondo. Ho iniziato a fare i primi ski tour che sapevo solo salire, ero brava a fare fatica. L'entusiasmo era tanto, ma ora ho capito che non basta chiedere al proprio corpo, bisogna anche dare. E non mi interessa se la gente è rimasta delusa. Ho visto negli occhi di tanti quello sguardo come a dire: devi tornare a salire gli Ottomila. Ma a un certo punto dovevo andare solo per soddisfare il mio personaggio. E non sarà più così.

 

Sul K2 durante l'ultima spedizione a un Ottomila © Tamara Lunger