Incontri di alpinismo. Stefan Glowacz: «Sono un nomade, la mia casa è ovunque»

L'alpinista tedesco ripercorre la sua carriera, che lo ha portato dallo sport climbing alle spedizioni intercontinentali. «Non bisogna mai smettere di porsi delle domande su cosa è necessario per noi»

Quando chiami Stefan Glowacz ti aspetti sempre che la sua risposta arrivi da una remota località del pianeta, da una delle sue tante spedizioni che ha intrapreso in Groenlandia come in Amazzonia. Questa volta invece l'alpinista tedesco risponde da Berg, in Bavaria, vale a dire da casa sua. “Sto lavorando a una via che ho chiodato una quindicina di anni fa e che poi per qualche motivo è sempre rimasta lì. È un itinerario che presenta un tiro difficile, soprattutto se piove perché la presa del passaggio chiave rimane bagnata. La via ha una bella linea, è lunga otto tiri, si trova sul Black Wall dello Zugspitze. Al tempo l'ho aperta con un mio amico, Markus (Dorfleitner, ndr), ma ora sto provando a liberarla con Philipp Hans, un mio socio giovane che già ha fatto diverse cose con me. D'altronde ho quasi sessant'anni, anche per me le sfide si fanno sempre più difficili”.


Da dove abiti alla parete ci vogliono non più di due ore e mezza: non è che inizi a provare nostalgia di casa?
No, non mi sento nostalgico per il semplice fatto che ho continuato a viaggiare moltissimo anche in zone molto remote: Iran, Tagikistan, Uzbekistan e in ognuno di questi posti mi sono sempre sentito a casa. Sono un po' nomade: so di avere una bella famiglia e una bella casa, ma la mia curiosità mi fa sentire a mio agio ogni volta che esploro un orizzonte nuovo.


Le tue spedizioni sono sempre state votate alla scoperta, forse più che al raggiungimento di un obiettivo specifico. È il gusto dell'avventura che ti muove?
Non ho mai amato le spedizioni in cui rimani due mesi nello stesso posto, ho sempre preferito la possibilità di variare, di trovare un paesaggio nuovo e di vivere la spedizione in azione, con qualcosa da fare ogni giorno.

Stefan in apertura sul Roraima tepuis © archivio Glowacz


La spedizione a Roraima, la mitica montagna al confine tra Guyana, Brasile e Venezuela è per certi versi il sunto di un mondo dove avventura e alpinismo procedono a braccetto davvero in una dimensione filmica. Era nelle intenzioni?
Niente di quello che si è visto è stato programmato, anche se effettivamente la nostra esperienza si è avvicinata molto a quella che può essere una storia da film. Il fatto è che noi abbiamo pianificato la spedizione stessa in un modo per cui la troupe e la cordata erano due gruppi ben distinti e autonomi. Questo ha reso il lavoro di tutti più indipendente e lo ha valorizzato.


Le insidie della foresta amazzonica si sono mostrate perfino superiori alle attese e comunque avete aperto Behind the rainbow, una via di 16 tiri, grado fino all'8b. Ti aspettavi di dovere passare attraverso a tutte quelle difficoltà?
In un certo senso sì: in un ambiente così, le situazioni vanno necessariamente fuori controllo, perché non puoi pensare che non si presentino imprevisti. Bisogna farsi trovare pronti.


Sei sempre stato un ottimo risk manager.
Non sono un cercatore di rischi, ma so accettarli e questo significa che devi sviluppare una propensione ad avere sempre un piano B. Per riuscire a venire fuori da una situazione difficile, la cosa più importante è essere organizzati in un modo per cui non finisci con il reagire alle paure, ma riesci sempre ad agire. Lasciare che le cose vadano in un certo modo porta a essere in ritardo e a reagire, e invece come alpinista devi essere bravo ad anticipare certe situazioni prima di rimanere intrappolato in qualcosa che non ti dà scelta.


Cosa pensi oggi di Grido di Pietra? Non è stato un film fortunato, ma in qualche modo è diventato comunque mitico.
Ritengo di avere vissuto un'esperienza straordinaria. Il film non era ben fatto perché c'era un conflitto tra l'autore, il direttore e la produzione, ma abbiamo avuto momenti davvero buoni, si sono create situazioni molto emozionanti. La parte più drammatica è stata probabilmente quando siamo rimasti bloccati in una grotta sotto la sommità. L'elicottero aveva portato lì me, Fulvio Mariani e Werner Herzog. Dovevamo filmare una caduta. Ma poi è arrivato il brutto tempo e siamo rimasti tre giorni con un pezzo di cioccolata da mangiare. Il più calmo di tutti era Herzog, credo anche per il fatto che non era completamente conscio dei rischi che avremmo passato nel tentare di scendere da lì con le nostre sole forze in mezzo alla tormenta.

 

L'iconico scatto di Stefan in free solo, anno 1995 © archivio Glowacz


Riesci a comprendere come le nuove generazioni vivono il rapporto tra l'alpinismo e il racconto di quello che loro stessi fanno?
Non del tutto. In passato andavi in spedizione con un tuo mindset specifico, legato all'avventura. In un secondo momento magari scrivevi qualcosa a riguardo, veniva fuori una storia e spesso c'era un dibattito a riguardo. Ora invece il bisogno di raccontare è costante, in un modo che non contempla critiche: short stories senza contraddittorio, una marea di informazioni che vengono riversate sui social e che lasciano una sensazione strana. Tutti hanno una grande urgenza di dire, ma nessuno è interessato ad ascoltare. Ognuno procede solo sul proprio cammino.


Hai vinto tre volte il Rock Master e per molti sei diventato famoso come sport climber. Ti ritrovi in quella categorizzazione dell'epoca?
Quando ho incominciato con le gare avevo già un passato da trad climber. Ma rappresentavo già una generazione successiva a quella del freeclimbing, di Mariacher, Iovane, Manolo e Roberto (Bassi, ndr), che erano molto legati alla tradizione. Io facevo parte di quel gruppo che aveva scelto di darsi alle competizioni. D'altronde avevo già salito in libera il mio primo 8a+ nel 1982. Avevo già toccato il limite di quello che era l'arrampicata del tempo e per me è stato naturale cercare qualcos'altro. Che poi a mia volta ho lasciato.

 

In traversata all'isola di Baffin © K. Fengler


Hai viaggiato molto, le tue spedizioni hanno insistito sul concetto di arrampicata by fair means. Oggi cosa è giusto fare o meno? sempre che lo si possa stabilire...
Non posso certo dirlo io, come gente che ama l'outdoor abbiamo un senso spiccato della natura, ma allo stesso tempo ci piace molto muoverci. E in fondo non è assurdo viaggiare così tanto, solo per scalare uno stupido muro? Ma scalare è più che un'attività, è una definizione di noi stessi. Non c'è un bianco e un nero, io penso spesso a come posso compensare le mie azioni. Ma più di tutto, bisogna pensare a cosa è veramente importante per noi stessi. Germania e Italia possono anche lavorare per ridurre le emissioni, ma poi ci sono Cina e India che possono vanificare tutto. Non possiamo sperare che siano le nazioni a risolvere i problemi legati alle emissioni. Dobbiamo iniziare da noi stessi e domandarci cosa è necessario per ognuno di noi. Se una persona sente che quello che fa è davvero importante, lo faccia. Ma non bisogna demandare la risposta a qualcun altro, bisogna essere sinceri e parlare con sé stessi. la risposta giusta è dentro ognuno di noi e per ognuno può essere diversa.