«Io giravo per montagne con mio padre, ad arrampicare o a fare ferrate. Avevo una indole abbastanza romantica e non potevo non innamorarmi di un'attività come l'alpinismo, che aveva così tanta avventura». Pietro Dal Prà ha attraversato diverse generazioni alpinistiche sempre in punta di piedi: vuoi per un carattere non schivo, ma che rifugge il protagonismo, vuoi perché, entrando in metafora, la “leggerezza” è un concetto a lui particolarmente caro. Nel suo curriculum ci sono salite su vie mitiche in Rätikon come Silbergeier (in soli tre giorni) e Die unendliche Gesichte, Attraverso il pesce in Marmolada e Zauberlehrling - in solitaria- alla Cima Scotoni. Dal Prà ha arrampicato anche in Patagonia e a Yosemite, ma per un alpinista che ha iniziato con l'arrampicata sportiva 40 anni fa a Lumignano, quando era appena 12enne, l'elenco delle ascese restituirebbe comunque in minima parte il suo pensiero. E allora ha più senso ripartire dal come vivere la scalata, più che dal quanto.
Pietro Dal Prà su Silbergeier, nel 2005. Archivio dal Prà
In un'epoca che mostra un'arrampicata piuttosto muscolare, tu rispolveri il concetto di leggerezza. Perché sei demodé o perché ritieni che sia ancora attuale?
Prima di tutto vorrei dire che c'è un grande equivoco: la scalata modernissima, quella delle gare negli ultimi 4-5 anni, in realtà è di un tecnico mostruoso. Si arrampica su prese aperte, dove conta la fluidità di movimento. Si danza come e più che negli anni '80 ed è un equivoco che in strapiombo non serva la tecnica e che serva su placca. Non al livello dei 40 più forti al mondo. Se i tracciatori oggi disegnassero dei percorsi di forza, tutti i top climber arriverebbero in catena. Diverso è il discorso per la “scalata del popolo”: lì si valorizza l'aspetto fisico. Vedi gente che arriva in falesia con gli elastici per scaldarsi o che fanno allenamenti a secco per scalare sul 6b. Si arrampica più indoor che outdoor, e indoor non c'è bisogno di leggere, non serve visualizzare, non c'è incertezza.
È sempre valido il concetto per cui fino al 6a non serve essere allenati, ma basta la tecnica?
Fino al 6a? Anche molto più in là, anche fino all'8a. Puoi vedere la scalata in due modi: ci metto più forza per vincere la forza di gravità, oppure ci metto più tecnica per ingannarla. Il primo è un metodo più becero, il secondo è più difficile, filosofico quasi. Non si applica solo all'arrampicata.
Una scalata “aggressiva” forse è in linea con i tempi che viviamo?
Sì. Sono tempi da “trogloditi”, dove non servono certezze reali, ma certezze da ostentare. Quindi conta mostrare a sé stessi e agli altri che si è capaci di scalare un certo grado. Vedo gente che mette su i rinvii con la canna da pesca, che lavora le vie quaranta volte. Tanti lo fanno per sentire o per far sapere sui social che hanno un certo livello, ma quello non è avere una certezza. Personalmente credo che il miglioramento vero nell'arrampicata arrivi dallo scalare sul facile, dove i movimenti si sciolgono, il gesto si fa naturale, entra a far parte di te. Poi tutti noi arriviamo al nostro limite e lì si diventa tesi, contratti, è normale.
Sulla parete nord del Cerro Piergiorgio nel 1996. Archivio dal Prà
Ci sono vie che ti hanno “imposto” un cambiamento nell'approccio?
Ho sempre scelto vie che andassero incontro a come ero io. La scalata per me si muove tra due opposti: quello di scalare per piacere e quello di avvicinarsi al proprio limite. Non può esistere solo la seconda componente.
Sei sempre stato molto riservato sulle vie che hai salito, o aperto. È il bisogno di preservare una forma di intimità?
Fino ai 30 anni ho salito le vie degli altri e delle mie parlo poco. Un po' perché c'è l'intimità per una cosa di cui sei troppo innamorato, non parlerei mai di come faccio l'amore con una donna. Quasi sempre, almeno all'inizio, è difficile parlare di una via che ho aperto, c'è una forma di gelosia nel volersi tenere per sé una cosa cara. Poi subentra anche una pigrizia nel raccontare, bisogna trovare le parole giuste ed è faticoso. È anche difficile raccontare quanto sia bello riuscire ad aprire una via su una parete ancora totalmente vergine, come mi è accaduto nelle Marmarole, o in San Lucano, o in Sardegna, tra Plumare e Oronnoro.
Hai vissuto Arco negli anni Ottanta. Di quel periodo se ne parla molto, ma soprattutto per aneddoti sul vestiario o per uno stile di vita ritenuto un po' naif, piuttosto che per l'arrampicata in sé. Possibile che non ci sia niente di quel periodo che valga la pena riscoprire, valorizzare? Arco oggi è tutt'altro.
Oggi conta il valore commerciale di un posto, non quello culturale. Arco aveva una grande tradizione: così a ridosso delle Alpi era frequentata da alpinisti e arrampicatori, oggi da chi indossa una maglietta “I am a climber” e ci sono 60 negozi in centro. Di fronte a questa massificazione dell'arrampicata, il modello di Arco sarà l'unico che si potrà seguire in certi luoghi. Intendo dire che andremo verso le falesie gestite dall'amministrazione comunale, con parcheggi e bagni chimici. Che si farà come negli Stati Uniti, dove bisogna prenotarsi. Sono stato a Lumignano ultimamente e la falesia era chiusa nel weekend. Troppa gente. E anche se si dice che si arrampicherà sempre più indoor, con l'enorme sviluppo della scalata in palestra ci sarà sempre quell'1% che vorrà andare fuori, e a questi ritmi di crescita basterà l'un per cento per riempire tutte le falesie conosciute. Ormai credo che sia meglio non diffondere più notizie sull'apertura di nuove falesie.
Verdon 1989 - Les Braves Gens ne Courent pas les Rues. Archivio Dal Prà
Cosa si può fare?
Secondo me ci sarebbe bisogno di una vera politica dell'alpinismo. Il CAI dovrebbe prendere in affitto, comperare i terreni dai privati e renderli fruibili, dico il CAI perché non è una cosa che va fatta per incentivare il turismo, ma all'interno di un ragionamento che abbia a cuore la cultura della montagna e dell'ambiente. Invece viviamo nella cultura delle palestre e anche le falesie diventano dei posti da citare, dove devi essere visibile per poi finire sui social. Ma la mia non è una critica da dinosauro moralista, voglio solo porre una domanda, proprio perché una risposta non ce l'ho: è un bene o un male curare così tanto la propria immagine solo per metterla su una piattaforma?
Viviamo ormai dentro l'emergenza ambientale. Cosa può fare uno scalatore per dare un contributo a un buon comportamento, che non sia semplice etichetta?
Ho visto con grandissimo piacere che qualcosa sta succedendo. Ci sono gruppi di ragazzi, soprattutto nel nord Europa e in Svizzera, che non prendono più l'aereo per andare a scalare. L'eco climbing esiste, c'è una sensibilità che si sta sviluppando. Ma in generale la gente non ha il coraggio di ammettere che questo sistema basato sui consumi non può reggere, non ha più il coraggio nemmeno di dire che il modello della crescita a ogni costo sia sbagliato. Credo che anche in questo il CAI dovrebbe impegnarsi sempre di più, nel proporre un modello culturale alternativo, fare capire l'importanza della rinuncia e che la decrescita è l'unica soluzione possibile.