Sullo spigolo Maria Grazia, al terzo tiro © Antonio Bernard
Antonio Bernard ha legato la propria vita alle montagne e in particolare al Catinaccio, il gruppo che conosce meglio per una lunghissima frequentazione. L'Accademico del Cai lo ha scalato infatti per la prima volta quando aveva appena otto anni. «Ero in cordata con mia sorella, allora diciottenne, che faceva da primo. Poco più indietro ci seguiva il suo futuro marito. Eravamo sulla normale, comunque forse sì, al tempo i genitori si facevano meno problemi nel lasciare andare i figli da soli».
La sua frequentazione del Catinaccio ha origini familiari.
Mio padre abitava in Val di Fassa ma era oriundo. Poi ci trasferimmo a Parma, quando ancora ero piccolo, ma avevamo mantenuto la casa a Pozza di Fassa, che tra l'altro possiedo ancora, è vicino alla pista Alloch. Siamo sempre saliti per le vacanze e continuo a farlo, anche se non a dicembre, c'è troppa gente per i miei gusti.
La sua esperienza in Dolomiti è enorme, di quante salite parliamo?
Non saprei, solo sul Catinaccio ho centinaia di ascese. Ho anche scritto una guida a riguardo, che forse è il mio libro più conosciuto. La via che maggiormente mi ha dato soddisfazione è stata la Diretta Steger, che ho fatto in solitaria, scendendola disarrampicando. Solo in un paio di punti mi sono calato in autosicura: o perché era bagnato o perché il passaggio era davvero impegnativo (ci sono tratti di VI, ndr). Mi sono sempre piaciute le solitarie, ma non per la ricerca dell'adrenalina. Le trovo il confronto più diretto con la montagna, un rapporto senza mediazioni. Mi ha sempre affascinato l'alpinismo di Preuss, non quello delle artificiali. In Catinaccio ho aperto anche alcune nuove vie. Alcune, come Fantasia, che ho tracciato con Mario Vigo, è anche molto ripetuta.
Un passaggio sullo Sperone Rivero © A. Bernard
La guida del Catinaccio è stata la naturale conseguenza delle sue salite o un'esperienza a parte?
Qualcosa di non strettamente connesso. Ho scritto la guida su commissione, e ho ripetuto tutte le vie, anche quelle che avevo fatto cinque o sei volte. Perché quando scrivi una guida non puoi andare a memoria, tutto deve essere preciso e aggiornato. Parliamo di centinaia di vie, e non tutte sono nella guida. Quelle che ho reputato non significative le ho solo segnalate. Ho scritto guide alpinistiche, un libro di didattica e anche un libro di narrativa, appena uscito. Si chiama Adamo e l'unicorno, è una serie di racconti. Nella vita ho insegnato letteratura e a un certo punto ho avuto piacere a cimentarmi anche con questa passione.
Ha una particolare passione per le nuove aperture?
Ho una grande passione per l'avventura, che uno può trovare anche andando in montagna con il cane, cosa che tra l'altro faccio. Mi piace esplorare e le nuove vie sono una conseguenza. Ma sono contrario alle aperture a ogni costo, solo perché c'è una porzione di parete libera. Una via deve avere una sua logica, una sua linea che la giustifica. E non è vero che è stato già fatto tutto. Si tratta solo di andare in posti magari un po' meno conosciuti. Qualche anno fa ho aperto una via nuova, una via corta, un centinaio di metri, nel gruppo della Vallaccia. E su trecento metri di parete non c'era ancora niente. Ora qualcosina c'è, ma è per dire che per chi ha voglia di cercare, le possibilità non mancano.
Ha avuto anche compagni di cordata illustri.
Certamente, per esempio Graziano Maffei o Alessandro Gogna. Alessandro lo stimo molto: non come alpinista, che è una ovvietà, ma anche umanamente. Sotto la sua scorza è una persona molto sensibile, una cosa che non è visibile a occhio. Con lui ho anche aperto un paio di vie nuove: una a Bismantova (Via del GAB, ndr) una alla Torre della Gardeccia. Eravamo andati per ripetere una via che andava a zig-zag, ma poi Alessandro mi ha detto: ma no, noi tiriamo su dritti che è meglio. E cosa vuoi dire? Va bene (ride, ndr).
Sulla via GAB © A. Bernard
Una salita non dolomitica che ricorda in particolare?
La Via degli americani al Dru. Una tosta, arriva al settimo grado, noi l'abbiamo fatta in 23 ore con partenza e ritorno da Chamonix. Non volevamo dormire al rifugio, trasformato in una sorta di ristorante per turisti. Così abbiamo fatto tutta una tirata, sempre con Mario Vigo.
Cosa non le piace dell'arrampicata di oggi?
Molte vie iperprotette, spittate in maniera eccessiva. Va bene inseguire il divertimento, ma non mi piace dove lo spit ti indica la via da seguire, ti toglie il gusto di capire dove andare. Molta gente purtroppo impara così, o su plastica. Sono bravissimi a tenere le prese, ma per me il bello di arrampicare è un'altra cosa.
Ha scritto anche un libro di didattica. Cosa bisognerebbe insegnare allora?
È difficile dire tutto in poco tempo, l'argomento è vasto. Ma una cosa si può dire: che gli istruttori dovrebbero insegnare ad anticipare il movimento, piuttosto che dire: metti il piede qui, metti la mano là. Imparare a leggere la parete è importantissimo. Anni fa, all'Università di Parigi, hanno fatto un esperimento, mettendo dei sensori ad alcuni scalatori. Sia per misurare la vista, piuttosto che la tensione del muscolo e via dicendo. È risultato che è molto più importante anticipare il movimento nella corretta interpretazione, piuttosto che essere molto allenati sotto il punto di vista della preparazione fisica.