Alberto Rampini è alpinista e istruttore d'alpinismo; ha scalato le cime di mezzo mondo e nonostante un'anagrafe di tutto rispetto – classe 1953 - ha un pensiero moderno sul ruolo di chi insegna l'attività. Le sue origini sono emiliane, ma la sua casa oggi è ad Arco, non lontano dalle splendide pareti di calcare di Padaro.
Da quanto frequenta la valle del Sarca?
Sono cinque anni che vivo stabilmente qui ma ho iniziato a frequentare Arco nei primi anni '80. Mi ricordo che al tempo non c'era questa chiodatura “seriale” delle falesie, ogni tanto andavamo a scalare a Nuovi Orizzonti (oggi chiusa, su terreno privato, ndr), una delle poche dell'epoca, anche se seguivamo la scena dell'arrampicata sportiva con un po' di distanza. Ci sembrava un esercizio un po' sterile, fine a sé stesso. Ad Arco noi scalavamo soprattutto vie lunghe, sul Colodri. Eravamo un po' stupiti che si potesse arrampicare in braghe e maglietta, abituati come eravamo alle nostre salite dolomitiche. Comunque portavamo ancora gli scarponi!
Arrampicata mista sul Breithorn © A.Rampini
La sua formazione avviene però in pianura...
Io sono nato a Parma, ho avuto la fortuna di avere - nell'ambito del CAI locale e della scuola di alpinismo - maestri come Antonio Bernard, che mi hanno fatto apprezzare la montagna ancora prima dell'arrampicata. La mia attrazione per l'alpinismo è dovuta anche a questi maestri. E poi avevamo vicino la Pietra di Bismantova: un posto bellissimo, una palestra formidabile. Lì si deve scalare con un'arrampicata estremante tecnica, delicata anche per il tipo di roccia. Imparando lì, quando andavamo in Dolomiti ci sembrava strano poterci attaccare alle prese, potere fare un certo affidamento sulla roccia.
Cosa ricorda del suo periodo dolomitico?
Abbiamo scalato quasi solo in quell'ambiente per una decina d'anni. Ricordi le grandi classiche: dalla Via Bettega alla Marmolada fino alle più difficili sul Civetta. Ripercorrevamo le grandi vie dell'epoca del sesto grado.
I suoi compagni dell'epoca?
Molti, ricordo con particolare piacere Stefano Righetti, che ho visto nascere a livello alpinistico. Con lui facemmo una delle prime ripetizioni in giornata della Philipp-Flamm. Attaccammo molto tardi, perché - la prima volta che ci eravamo alzati - avevamo trovato brutto tempo ed eravamo tornati a dormire. Ci risvegliammo alle 8, c'era il sole e partimmo, senza troppo pensarci. Sono quelle cose che si fanno da giovani, con un pizzico di incoscienza, ma con entusiasmo e comunque con grande preparazione.
Sulla vetta del Mount Kenya, all'uscita del Diamond Couloir © A.Rampini
Ha arrampicato molto anche fuori dall'Europa.
Dopo il periodo in Dolomiti mi era venuta voglia di fare altro. Mi mancava il ghiaccio, l'alta quota, così iniziai a frequentare le Alpi Occidentali. Tra le altre mi ricordo la Cresta Signal al Monte Rosa, in solitaria. Mi ha lasciato tanto. Più avanti ho iniziato a girare per il mondo, non come si fa ora, che ci si affida a internet, ma trovando ispirazione sui libri. Mi ricordo, per esempio, che avevo letto Pilastri del Cielo, di Armando Aste, e sulla scorta di quella suggestione andammo alle Torri del Paine, in Patagonia. È stato indimenticabile anche scalare il Diamond Couloir, sul Monte Kenya. Qualcosa che oggi purtroppo non è più possibile per i cambiamenti climatici, fu un grandissimo privilegio.
Ha aperto diverse vie anche in Appennino, come in Africa o nelle Prealpi.
Sì. ho aperto diverse vie in Val d'Adige, nel Brentino che oggi sono diventate delle super classiche. Con mia moglie poi ho tracciato alcuni itinerari nell'Anti Atlante, nella zona di Tafraoute. Vie su quarzite, in stile trad, una decina di anni fa. Ma mi sono impegnato anche per valorizzare il patrimonio dell'Appennino, sia vie lunghe, come per esempio sul Monte Scala, che falesie, nella zona di Lago Santo Parmense, dove si scala su un'arenaria molto compatta. Oggi, più che un tempo, credo sia importante riuscire a evitare che la gente si concentri nei soli luoghi noti. Non si può più ignorare il problema del sovraffollamento, ci sono località che non possono più reggere ulteriore pressione.
Lei è anche Istruttore di alpinismo del CAI. Cosa significa insegnare oggi? In questo proliferare di nuove figure e nuove tendenze dell'arrampicata, cosa bisogna insegnare?
Io sono diventato Istruttore Nazionale nel 1984. Da allora è cambiato molto il ruolo: una volta si insegnavano l'abc della tecnica e della sicurezza, due aspetti fondamentali ancora oggi, ma non sufficienti. Oggi credo che – con tutta la massa di gente che si affaccia alla pratica- sia importantissimo fornire anche una educazione ambientale. La montagna non è più solo un ambiente difficile e pericoloso, ma in un certo senso anche fragile. Bisogna insegnare la cultura del rispetto della natura e dell'altro, bisogna creare una coscienza ambientalista.