Luca Giupponi ha attraversato diverse generazioni dell'arrampicata moderna: dalle prime “sperimentazioni” in falesia negli anni '80 alle Olimpiadi di Tokyo nel 2021. L'alpinista trentino - istruttore dell'ufficio attività alpinistiche della scuola alpina della polizia di stato- è tuttora molto attivo sulla roccia, con uno stile il più possibile aderente a un'etica di rispetto totale della montagna.
Come hai iniziato a scalare?
I miei non andavano in montagna, ho scoperto l'arrampicata mentre passavo in bicicletta sotto i piloni della ferrovia, a Trento. C'era gente che scalava lì e ho provato. Inizialmente si andava alla Vela o ai Bindesi, poi anche in Busa. Ho conosciuto Roberto Bassi, ho arrampicato parecchio con lui. E poi con Rolando Larcher. Con lui continuo a scalare spesso. A Nomesino, nel 1988 ho fatto il mio primo 8a, erano le prime vie strapiombanti su quelle difficoltà. Poi, quando Rolly ha liberato Maratona al Pueblo di Massone, io l'ho ripetuta, il mio primo 8b. È un tiro ancora fantastico.
Il ritorno di ringo (8b), flash, 1992 © Fabrizio DefrancescoHai gareggiato per moltissimi anni.
Mi hanno chiamato a Moena nel 1992, mi hanno chiesto se volevo fare le gare e ho partecipato alla Coppa del Mondo per quasi vent'anni. Lead, boulder, speed, ho provato tutto. Nel 2013 sono diventato allenatore in nazionale, è stata una naturale conseguenza. Ho continuato fino alle Olimpiadi.
Come valuti l'esperienza di Tokyo?
In qualche modo bisognava debuttare, anche se non è stato il massimo: praticamente niente pubblico, tutte le discipline riunite insieme e una tracciatura che ha lasciato a desiderare.
Nei tuoi anni da allenatore quanto hai visto cambiare l'arrampicata sportiva?
Moltissimo. Si sono aggiunte tante nazioni che prima non facevano parte del “giro”, è cresciuto in misura esponenziale il numero di praticanti, il livello di conseguenza si è alzato tanto. Anche lo stile è cambiato parecchio, quando ho smesso io per esempio il boulder iniziava a essere più dinamico, con più lanci e se guardiamo a quello che è diventato oggi è quasi un altro sport.
Dove lavori oggi?
All'ufficio attività alpinistiche, all'interno della scuola alpina della polizia di stato. È qualcosa che è iniziato negli anni '80 con Bepi de Francesch, Vuerich e Romanin. Loro hanno gettato il seme: hanno aperto qualcosa di simile a questo ufficio che ora fa soccorso, corsi interni di montagna e sci alpinismo, oltre a preparare i soccorritori per le piste da sci in inverno.
Il mondo del soccorso è cambiato molto?
Davvero tanto. Le piste da sci sono diventate dei biliardi, tutti vanno veloce, anche quelli che non hanno tanta tecnica. Con gli sci odierni sono tutti sugli spigoli e poi c'è un traffico incredibile. Anche in montagna, non c'è più senso della misura. Si chiama l'elicottero per una caviglia slogata; un tempo ti vergognavi a chiedere aiuto, in montagna ci andavi con una certa preparazione, cercavi di cavartela sempre.
La tua avventura alpinistica più bella?
La via che mi è rimasta più nel cuore è stata Escalador selvatico. Era il 2014, siamo andati in Amazzonia a scalare l'Acopan Tepui, vicino al Santo Angel. Già arrivarci è stata una bella avventura. Ci hanno accompagnato gli indigeni, abbiamo aperto una via di 700 metri su una parete con una roccia incredibile.
Su Escalador selvatico © M.Oviglia
Da espertissimo frequentatore delle Dolomiti, una via che ti è rimasta nel cuore?
Lo Spigolo della Vallaccia, via aperta da Toni Gross (la cosiddetta Via dei Fassani, ndr). Al tempo era stata aperta in artificiale; ora si fa in libera, i primi sono stati Tom Ballard e Bruno Pederiva. L'ho fatta due anni fa, veramente bella. Sotto non tanto, ci sono quei camini faticosi di sesto grado che si facevano una volta, ma sopra la roccia ha una qualità incredibile.
Le ultime vie che hai aperto e di cui vale la pena parlare?
La Giupponi-Larcher alla Punta Emma del Catinaccio è una bella via. Era un po' che guardavo di là, c'era spazio alla destra della Eisenstecken, ma gli ultimi 70-80 metri di giallo strapiombante non si capiva bene se erano fattibili. Gli ultimi due tiri in effetti sono un po' duri, quello più difficile è 7b+, l'obbligatorio è di 7a. L'abbiamo aperta con Rolly, tutta in libera. Al giorno d'oggi non ha tanto senso aprire in artificiale secondo noi, tanto vale lasciare stare. La si può ripetere con una serie di friend per integrare, ha uno sviluppo di 200 metri circa. E poi ne abbiamo aperta anche un'altra, alla Torre est del Vajolet. Si chiama Tokyo 2021, probabilmente è meno bella ma più dura. Il tiro più difficile è 7c+, l'abbiamo dedicata ad Alex Tonioli, un nostro collega che è scomparso due anni fa. C'è sempre da fare da queste parti!
Il tracciato della Giupponi-Larcher a Punta Emma © L.Giupponi, R.Larcher