In bici sulla Transhimalayana: Omar Di Felice e la strada della felicità

2600 km e 33.000 km di dislivello: questi i dati tecnici dell'impresa di Omar Di Felice, atleta romano di ultracycling che ha iniziato a pedalare a febbraio in Bhutan fino a raggiungere il Tibet. Non solo un viaggio ma anche la prima tappa del progetto Bike to Happiness
Omar Di Felice in Tibet, archivio personale
© Archivio Omar Di Felice

Scarpe per pedalare, t-shirt, divisa da ciclismo e pantaloncino per dormire: questo c'era nella borsa di Omar Di Felice quando è partito il 6 febbraio in sella alla sua bici da gravel per un'avventura che l'ha portato a immaginare un nuovo progetto: Transhimalaya, un viaggio attraverso il Bhutan, il Nepal e il Tibet, territori attraversati dalla catena montuosa più alta al mondo.

Omar, che di spedizioni ne ha già fatte tante – ricordiamo quella sull'Antartide l'anno scorso, oltre 48 giorni da solo per 716.5 chilometri percorsi sulla calotta con una Fat Bike – ha deciso di combinare la passione per il viaggio e lo sport anche con la divulgazione e l'educazione alla sostenibilità sociale. La spedizione transhimalayana è infatti il primo tassello del progetto Bike to happiness, road to 1.5, con cui vuole raccontare le storie delle persone che vivono in paesi climaticamente svantaggiati. Prima di Bike to happiness, dal 2022 esisteva già Bike to 1,5, con cui parlava di crisi climatica

Lo abbiamo intervistato mentre era al rifugio Forni, in Lombardia.

 

Omar, come mai sei al rifugio Forni?

Da amante dell'inverno, cerco sempre di inserire un po' di di allenamenti sulla neve con la fat o la mountain bike. Anche se non sto preparando spedizioni, è sempre un cantiere aperto: provo sempre materiali, soluzioni, cose che magari in futuro mi possono tornare utili per le mie avventure.

 

A proposito di avventure, parliamo della tua ultima: la Transhimalayana invernale. Quando sei partito?

Il 6 febbraio. Ero a Guwahati, in India, dove c'era traffico, caldo, polvere, terra, di tutto. Volevo entrare in Bhutan e togliermi da tutto quel grandissimo caos, immergermi nell'avventura vera e propria. Sono partito la mattina e verso le 14.00 ero alla frontiera, ho sbrigato le formalità e sono entrato in Bhutan. 

 

Come ti ha accolto?

Il Bhutan è un regno abbastanza chiuso, ci sono pochi abitanti, tutti sorridenti e accoglienti, è un posto molto tranquillo. Ogni sera dormivo in piccole guest house, hotel in cui c'era anche la cucina. Ma a volte erano chiusi perché d'inverno ci sono pochi turisti. Le persone sono state disponibili, mi ospitavano, mi davano da mangiare, si prendevano cura di me. Io in cambio davo loro qualche soldo di cortesia.

 

Sei rimasto in contatto con alcune di queste persone?

Con due ragazzi di un piccolo villaggio in Tibet. Mi hanno ospitato e ci siamo scambiati il contatto di WeChat, una specie di Whatsapp. Ci siamo divertiti, loro non parlavano inglese ma usavano il traduttore simultaneo. Erano fissati con il calcio. Volevano sapere che squadra tifassi, se preferissi Francesco Totti o Cristiano Ronaldo. Oggi mi arriva qualche messaggio in cui mi chiedono come sto, che sto facendo. 

 

Cibo tipico?

Lì si consumano molti prodotti della terra locale. Ho mangiato soprattutto riso e verdure. Ogni tanto un po' di carne: se non ho capito male, loro non possono uccidere gli animali ma possono mangiarli se li comprano già morti. 

 

E un cibo che per te non può mancare durante le spedizioni?

Il gelato! E stavolta l'ho trovato a Katmandhu in una gelateria artigianale!

 

Quanti chilometri facevi al giorno? 

In media 120/130 fino ad arrivare a 200 km. Poi dipendeva anche dal dislivello: ho fatto dislivelli da 2/3000 m fino ad arrivare anche a 4/5000 m. La parte difficile è stata gestire la quota in Tibet: salire sopra i 4000 m abbastanza velocemente, senza acclimatamento, è stato complicato. Con la bici carica, poi, è pesante. Io avevo un sistema di bike packing, cioè attaccavo le borse alla bici con un sistema di cinghie, per non avere portapacchi. Ma dopo l'Antartide, ho riscritto il mio concetto di faticoso. A livello ciclistico, durante la Transhimalayana, è stato tanto il dislivello, poi c'erano vento e neve, quindi è stato fisicamente impegnativo. Però direi una stanchezza giusta per l'allenamento di un atleta. 

Omar Di Felice in bici sulle strade del Nepal © Omar Di Felice

Come hai preparato il tuo percorso? 

Ho preso una mappa cartacea, per avere una visione d'insieme. Ho fissato dei punti che poi ho messo al pc con strumenti che si usano per tracciare in GPS e ho creato la traccia. E per ogni punto, ho visto le singole disponibilità di alberghi. Quelli raggiungibili tramite email li ho prenotati dall'Italia, gli altri direttamente lì. Alla fine ho diviso il percorso in base a quello che pensavo di essere in grado di fare e così ho avuto il mio piano di viaggio. L'ho caricato sul GPS e ho cercato di rispettarlo il più possibile. 

 

E per superare le frontiere?

Avevo fatto tutti i visti in Italia. Ma quando arrivi alla frontiera, è sempre un'incognita. E poi in quei paesi c'è corruzione. Tra India e Nepal ho trovato un poliziotto che mi ha fatto smontare tutto, mi ha fatto storie per la telecamera. Mi ha bloccato per 4 ore. Bisogna arrivare preparati alla frontiera, e con tanta pazienza. 

 

E come l'hai risolta? 

Alla fine ho pagato, non ricordo quante rupie per il disturbo, così mi hanno detto. Nonostante io avessi già pagato il visto e tutto il resto, per farmi portare la telecamera ho dovuto pagare questa tassa. Non ho ricevute di questa cosa e io non ho fatto domande. Altrimenti mi avrebbero sequestrato il materiale. 

 

Quanto c'hai messo dall'Italia per preparare tutti i documenti?

Ho iniziato a lavorarci a metà dicembre e gli ultimi permessi per il Tibet sono arrivati mentre ero già in Bhutan. 

 

Perché?

Perché a gennaio c'è stato un forte terremoto tra Nepal e Tibet e quest'ultimo ha chiuso tutto agli stranieri. Quindi diciamo che io sono partito e fino a che non sono arrivato a Kathmandu in Nepal, in realtà non sapevo se mi avrebbero concesso di entrare in Tibet. Poi mi ha chiamato un mio amico che mi dà una mano ad organizzare viaggi e mi ha detto che potevo andare alla frontiera. 

 

E in Tibet hai avuto problemi?

C'è la grossa questione che il Tibet è chiuso ai viaggiatori soli. In realtà ci sono delle deroghe, concessioni fatte ai giornalisti o per viaggi particolari di documentazione. Bisogna fare un lungo iter burocratico attraverso ambasciate e consolati e alla fine hai l'approvazione. Poi deve esserci una persona che tu paghi e che controlla tutte le mattine che stai rispettando il viaggio che hai comunicato. Quindi alla frontiera ho conosciuto questa persona tibetana che mi hanno assegnato e ogni giorno mi aspettava ai check point militari. 

 

E hai avuto problemi con i contenuti social che pubblicavi?

Bhutan, India e Nepal sono posti molto tranquilli da questo punto di vista. Il Tibet è una zona abbastanza sensibile invece. Mi sono documentato e mi avevano raccomandato di evitare ogni forma di polemica. La Cina sta spazzando via ogni traccia di Tibet: stanno costruendo strade e autostrade ovunque. Io ho fatto solo un post, senza toni polemici, da cui si vedeva come stavano le cose, ma nessuno mi ha detto nulla. Mi sono limitato a raccontare la bellezza del Tibet, lasciando fuori ogni discorso politico o di protesta. 

 

Parlavi in inglese con le persone che incontravi?

Sì, con alcune distinzioni. In posti più sviluppati dal punti di vista turistico, tipo il Nepal o il Bhutan, si parla inglese. In altri, tipo Cina e Tibet, no. Ci capivamo a gesti. Poi lì usano un traduttore. Alla frontiera è stato un po' difficile perché la polizia non parla inglese. Noi siamo abituati che è una lingua che si parla in tutto il mondo ma in quei posti mi sono accorto che è il nostro mondo occidentale a parlare l'inglese. 

Bhutan, archivio Omar Di Felice

Passiamo ad altri aspetti: hai dovuto cambiare i soldi?

In Bhutan sì. Negli altri luoghi ho potuto pagare con il telefono. Come ti dicevo, in Cina tutti hanno WeChat: ho caricato le carte lì sopra e anche il venditore ambulante ha il telefono e accetta quei pagamenti lì. Credo che non ci sia commissione, se invece ritiri i contanti, paghi qualcosa come 5 o 6€.

 

Producevi rifiuti? 

Sì, le carte delle barrette o dei cibi che consumavo durante il giorno. Portavo tutto con me e poi la sera le buttavo dove arrivavo. In Bhutan fanno la raccolta differenziata e stanno molto attenti all'ambiente. In India invece c'è la differenziata ma poi giri per strada e c'è tanta plastica buttata a terra. Soprattutto nei villaggi, credo che non abbiano molta coscienza di cosa significhi differenziare. In Tibet e in Cina, invece, sono molto attenti e non c'erano rifiuti per strada. 

 

Ci sono stati momenti in cui hai avuto paura per la tua sicurezza personale?

Non ho mai percepito nessun tipo di rischio, neanche la presenza di microcriminalità. Ho trovato sempre persone e contesti molto tranquilli. Anche quando parcheggiavo la bici, ci mettevo il lucchetto e non la toccava nessuno. Non penso che siano tanto abituati a vedere ciclisti. 

 

Hai un rituale propiziatorio che ti accompagna nelle spedizioni?

No, ma essendo grande appassionato di Supe Mario su Nintendo, da qualche anno porto un piccolo pupazzo sempre con me in bici. Non un rito scaramantico ma un segno di buon auspicio. 

 

Hai assistito a rituali o eventi tradizionali? 

Quando ho finito la mia avventura, sono rimasto in Tibet e in quei giorni c'era il Capodanno tibetano. A Lhasa una sera hanno sparato i fuochi d'artificio e di giorno c'era questo fiume di persone locali che andava nei monasteri a pregare, a portare le offerte. Per fortuna c'erano due file per entrare nei templi: una per i turisti e una per i locali. Ho visto tutti i templi di Lhasa!

 

Qual è stata la prima cosa che hai fatto quando hai raggiunto il tuo obiettivo?

Sono andato in albergo, mi sono fatto una doccia, ho comprato una maglietta, un pantalone, un paio di scarpe civili, nuove, pulite. Ho fatto una passeggiata in città e sono andato a mangiare un hamburger a Lhasa nell'unico posto dove non c'era cibo solamente cinese. Poi sai, il primo momento in cui ti accorgi di aver finito davvero è la mattina dopo, quando ti svegli e non devi alzarti presto, non devi caricare la bici, faticare. Il giorno dopo in hotel ho fatto una bella colazione tranquillo, seduto. Due ore di colazione. 

 

Come ti sei sentito?

Tranquillo, sereno, appagato per quello che avevo fatto.

Tibet, Archivio Omar Di Felice

La Transhimalayana invernale è stata anche il primo viaggio del progetto Bike to Happiness. Di cosa si tratta e come è nato?

Tutte le mie idee nascono in movimento. Credo che stare all'aria aperta aiuti anche il nostro cervello a creare, pensare, tirare fuori nuove idee, risolvere i problemi. Qualche anno fa ho lanciato "Bike to 1.5", un progetto di divulgazione sui temi della crisi climatica. Che vuol dire anche sostenibilità ambientale e sociale perché il clima ha impatto sulle comunità, sugli esseri umani, sui luoghi, soprattutti su quelli più remoti e sensibili del pianeta. Il progetto Bike to happiness nasce dalla voglia di raccontare non solo la crisi climatica, ma anche come le persone in giro per il mondo la stanno affrontando. E, aggiungo, anche quale può essere il ruolo della bicicletta, in termini di mobilità, per ridurre il traffico e abbassare i livelli di inquinamento. 

 

Cosa prevede il progetto?

Faccio divulgazione sia negli eventi a cui partecipo, dove mi invitano, sia nelle scuole, che è la parte che mi piace di più. Incontro i ragazzi degli ultimi anni delle elementari, delle medie e qualcuno anche delle superiori: per un'oretta circa mostro le immagini delle mie avventure e parlo di sostenibilità, cercando di stimolare una risposta. 

 

Come si approcciano questi ragazzi alle tematiche che tu proponi?

Meglio di noi adulti, direi! I ragazzi hanno molta più consapevolezza sulla sostenibilità e sono più propensi al cambiamento rispetto alle vecchie generazioni. Viceversa, quando faccio divulgazione sui social, le persone fanno fatica a capire che bisogna cambiare stile di vita. 

 

Come si confrontano con te?

Loro sono molto social, mi chiedono se ho YouTube, TikTok, Facebook. Ma sono anche molto attenti alla lezione che faccio. Gli insegnanti mi dicono che durante le ore in classe si distraggono facilmente, invece con me no: mi fanno sempre molte domande, dialoghiamo e sono molto interessati. Credo che questi temi dovrebbero diventare materia di studio a scuola. 

 

Che impatto può avere il tuo progetto Bike to Happiness? 

Credo che dobbiamo dare tutti un contributo. Servono gli attivisti che scendono in piazza, che sono una forte spinta dal basso. Ma serve anche altro: fare formazione, parlare con i giovani, con le istituzioni, fare progetti concreti. In molti mi rimproverano di prendere l'aereo per fare i miei viaggi. Ma io credo che bisogna fare attenzione alla finalità per cui ci si sposta. Bike to happiness vuole essere il mio contributo ad una causa che io reputo giusta e per la quale mi voglio impegnare. Incontro migliaia di studenti tutti gli anni, uso le mie piattaforme, che seguono migliaia di persone, per far parlare anche scienziati ed esperti del settore, faccio speech aziendali. Non posso misurare l'impatto della mia attività, ma è quella famosa goccia nel mare che, se la sommiamo a tutte le altre, comincia a diventare importante. 

 

Com'è nato l'interesse verso la questione climatica, ambientale, della sostenibilità sociale? 

Quando viaggi in bicicletta vedi il mondo che cambia intorno a te, vedi le comunità dove c'è sempre meno acqua, dove ci sono sempre più problemi anche ad approvvigionare le risorse. Per esempio: vengo sulle Alpi tutti gli anni, vedo come cambia il panorama; spesso sono in Islanda per allenarmi e anche lì i ghiacciai sono in forte sofferenza. E quindi ho voluto raccontare non solo l'aspetto sportivo delle mie avventure, ma anche quello ambientale, sociale. È un percorso in cui cerco di coinvolgere anche e soprattutto voci più autorevoli della mia, perché in fondo sono solo uno sportivo. Faccio incontri o live streaming con scienziati, esperti o comunque persone in grado di raccontare meglio di me i temi della scienza, usando però il mio linguaggio e le mie piattaforme che possono essere più comprensibili e raggiungere anche quelle persone che non hanno delle nozioni specifiche. 

 

Ho visto anche che sei stato alla Cop di Glasgow con la bici. 

Sì, è stato proprio il lancio di Bike to 1,5. Sono arrivato in bici a Glasgow partendo da Milano È stata una la prima volta che una bicicletta entrava nelle Nazioni Unite.

 

Dove te l'hanno fatta parcheggiare? 

Questa è stata una cosa da ridere: mi hanno fatto smontate le ruote, le borse, tutto insomma, per passare nel metal detector. Una volta dentro, mi hanno fatto fare un giro di mezz'ora nei padiglioni, ci siamo fatti delle foto davanti ai pannelli principali e poi però mi ha detto "Adesso esci con questa bici".