IL PILASTRO GORETTA. Renato Casarotto sul Fitz Roy, in solitaria ma non da solo.

45 anni fa l'alpinista vicentino portò a compimento una delle salite più visionarie della storia dell'alpinismo: una via nuova, in solitudine. Ad aspettarlo al campo base la presenza fondamentale della moglie Goretta Traverso.
Renato Casarotto © archivio Goretta Traverso

Nel 1979 sul granito del Fiz Roy in Patagonia fu compiuta quella che può essere considerata una delle più emblematiche scalate solitarie di sempre. Protagonista di questa storia è Renato Casarotto, vicentino, classe 1948, tra i più forti alpinisti internazionali degli anni Settanta e Ottanta, autore di leggendarie ascensioni solitarie e invernali, sia nelle Alpi che sulle montagne extraeuropee. Quando si parla di lui si pensa al Diedro Cozzolino del Mangart, al viaggio del trittico del Freney, al gelo della Est delle Jorasses, all’infinito Mckinley per la “Ridge of not return”. E poi l’aria sottille degli 8000, l’estetico spigolo del Broad Peak Nord e la “Magic Line” del K2, dove nel 1986 Casarotto trovò la morte a pochi passi dal campo base, mentre rientrava dal suo ultimo tentativo, spintosi fino a trecento metri dalla vetta. 
Ognuna di queste sono imprese che ai giorni nostri si direbbero “da Piolet d’or”, possibili a pochissimi, compiute spesso in condizioni avverse, che richiedevano una più che ferrea volontà per essere affrontate da solo e in autosufficienza. Parlando di Casarotto si va aldilà delle valutazioni tecniche e dei gradi di difficoltà, si raccontano invece quanti giorni, quanto freddo, quanta tenacia.

Al suo arrivo in Patagonia nel 1978, Casarotto non era ancora un nome così conosciuto, ma il mondo dell’alpinismo internazionale aveva già sentito parlare di lui per una salita sorprendente compiuta proprio in Sud America. L’anno prima infatti, aveva scalato da solo una via nuova sulla spaventosa e friabile parete Nord dello Huascarán (6768 m), passando 17 giorni sulla montagna, assistito soltanto dalla moglie Goretta Traverso che lo aspettava al campo base. Questa volta invece non è da solo ma con la spedizione italiana guidata da Giuseppe Caneva del CAI Morbegno. Puntavano al versante Nord del Fitz Roy. In questa occasione gli alpinisti salgono solo 250 metri prima di rinunciare.  

Alla fine del 1978 Casarotto torna di nuovo, con la spedizione “Contea CAI Bormio-Fitz Roy 1978-1979”, insieme ai compagni Luigi Zen e Giovanni Maiori che però abbandonano il tentativo: è allora che il vicentino decide di proseguire da solo, secondo lo stile che - ormai lo sa - gli è più congeniale, come dimostrato l’anno prima sulle Ande.

“Il 6 dicembre accadde l’imprevisto; gli altri due alpinisti abbandonano la spedizione. Un ambiente così severo e ostile aveva distrutto il loro entusiasmo. Inutili le parole per dissuaderli e convincerli almeno a provarci. Così io e mia moglie siamo rimasti soli per andare avanti come meglio potevamo. Ero determinato a provare a scalare in solitaria il nostro obiettivo, il pilastro nord, una via mai tentata, avendo come unica esperienza simile quella dell'anno precedente sulla parete nord dell'Huascarán Norte nelle Ande peruviane”.

Con lui c’è come sempre l’amata Goretta che in questa vicenda è tutt’altro che secondaria, ma al di là dell’amore e del supporto psicologico senz’altro importante, l’uomo sulla montagna è da solo a cavarsela contro il freddo e l’’incertezza della scalata. Va su e giù per la via per alcuni giorni, facendo base nella tenda che monta sotto al colle ai piedi del pilastro, al riparo dai venti. Lungo la sua via arrampica su bellissime fessure e camini levigati di granito dorato. Giorno dopo giorno attrezza le lunghezze di corda e lascia le corde fisse in parete, per risalire più velocemente al punto massimo raggiunto. Il primo tentativo alla vetta non va però a buon fine.

“Sono partito alle sette del mattino, armato di pellicola e macchina fotografica, sperando di salire in vetta al Fitz Roy, ma ci è voluto tanto tempo per sostituire alcune corde fisse e per documentare la salita. Sono arrivato in cima al pilastro solo nel pomeriggio e ho iniziato la traversata per guadagnare la parete della vetta principale, trovando difficoltà impreviste, tra cui tre ardui pendoli. Sono salito fino a tarda notte alla luce della mia lampada frontale, sferzato dal vento e dal ghiaccio che cadeva. Vedendo che il freddo della notte non impediva la caduta del ghiaccio, scesi nell'intaglio tra il pilastro e la vetta principale. Verso l'alba un vento forte e umido coprì rapidamente la roccia di verglas. All'alba ho iniziato la discesa, superando enormi difficoltà per raggiungere la tenda del bivacco.”

Ha guadagnato la cima del suo pilastro ma non della montagna, così torna alla base e aspetta che il meteo si rimetta al bello. In pochi giorni la bufera incrosta il ghiaccio sulle corde e le rende inutilizzabili, ma ciò nonostante può tornare laddove si era interrotto e superare i non facili trecento metri finali che lo separano dalla vetta del Fitz Roy, raggiunta finalmente il 19 gennaio del 1979.

Il 17 gennaio risalii nuovamente alla base del pilastro, dove trovai la tenda distrutta. Mi preparai come meglio potevo per passare la notte. Il giorno successivo ho proseguito verso la sommità del pilastro, riparando alcune corde sfilacciate dal vento. Anche questa volta, lungo la parete della vetta principale, ho dovuto lavorare fino a tarda notte a causa dei danni causati dal maltempo. Era molto tardi quando scesi al mio bivacco senza tenda nella fessura. Verso l'alba ho riacquistato il punto più alto e da lì ho seguito numerose fessure e diedri con le maggiori difficoltà mai incontrate perché le pareti erano completamente coperte di neve e ghiaccio. Finalmente, nel pomeriggio del 19 gennaio, ho raggiunto la vetta. Fatte le fotografie di rito, mi sono affrettato a scendere e nel pomeriggio del giorno successivo sono tornato al mini Campo Base e da mia moglie.

È la prima solitaria sulla montagna, e nessuno, nemmeno ai giorni nostri, ha mai eguagliato la sua impresa, tant’è che è ancora l’unica via aperta in solitaria sul Fitz Roy. Non solo: ancora oggi si contano sulle dita di una mano le ripetizioni integrali della sua linea di salita, sebbene molti alpinisti abbiano percorso alcuni tratti della via, alternati però, in certi passaggi, ad alcune varianti scalate negli anni successivi.

Quest'avventura mi ha confermato che per riuscire in ascensioni di notevole difficoltà è indispensabile integrarsi nell'ambiente circostante. Bisogna cioè saper individuare le condizioni più propizie per la salita affinché le proprie energie fisiche e psicologiche non vengano dissipate in lunghe attese. A mia moglie, che è stata infinitamente paziente e comprensiva, dedico la vetta del pilastro nord del Fitz Roy. D'ora in poi lo chiamerò Pilastro Goretta.

La via di Renato Casarotto al Fitz Roy © Luca Maspes