Ice Memory al K2: “Fondamentale studiare i ghiacciai del Pakistan”

I ricercatori del progetto Ice Memory hanno preso parte alla spedizione “K2 70” trovandosi però costretti a rientrare prima del tempo a causa di una valanga, ma il progetto di ricerca non si ferma.
I ricercatori di Ice Memory al campo base del K2 © Riccardo Selvatico

Come nel 1954 la spedizione italiana al K2 si componeva di una parte alpinistica e una scientifica, anche la spedizione “K2 70” ha avuto modo di mettere insieme l’avventura e la ricerca. Questo grazie alla partecipazione all’iniziativa commemorativa del progetto Ice Memory. Nato in seno all’Istituto di scienze polari del Consiglio nazionale delle ricerche e all’Università Ca’ Foscari Venezia, la missione è partita alla volta del Pakistan grazie al supporto di EvK2CNR, della Environmental Protection Agency del Gilgit-Baltistan, della Fondazione Università Ca’ Foscari Venezia, e con il contributo del Club Alpino Italiano e del Ministero dell’Università e della Ricerca. L’obiettivo era quello di raccogliere, salvare e gestire carote di ghiaccio da ghiacciai selezionati attualmente in pericolo di degrado o scomparsa, con l'obiettivo di preservare le informazioni che contengono per decenni e secoli a venire. 

Una spedizione sfortunata, la loro, che fin da subito da dovuto fare i conti con la natura del Karakorum. Posizionata infatti l’attrezzatura, per poter effettuare i primi campionamenti, sono stati travolti da una valanga dovuta al crollo di un seracco. Rientrati di notte al campo base hanno poi deciso di chiudere questa loro prima esperienza pakistana. Jacopo Gabrieli, ricercatore e coordinatore del gruppo, ci racconta l’esperienza vissuta. 

 

Jacopo, qual era il vostro obiettivo?

Inizio a rispondere con una premessa: fin dall’inizio sapevamo che la zona del ghiacciaio Godwin Austen, sotto la parete est del K2, non poteva essere quella in cui effettuare un carotaggio profondo, questo per una serie di ragioni glaciologiche. La nostra idea, in questa prima spedizione, era quella di andare a prelevare, da questo ghiacciaio, una carota superficiale di circa 15 metri. Volevamo comprendere se a quote comprese tra i 5800 e i 6000 metri gli strati del ghiaccio erano ancora conservati ed era possibili studiarli per trarne informazioni utili alla ricerca. 

 

Cosa avete riscontrato?

Purtroppo a livello scientifico non siamo riusciti a ottenere risultati. A suo modo anche questo è un risultato, perché ci ha dimostrato come in Karakorum l’approccio debba essere un altro. Noi siamo partiti con la nostra scaletta di cose da fare, con un programma fitto e dettagliato, come avremmo fatto qui. Un metodo che già funziona poco sulle Alpi, ancora di meno su quelle montagne. 

 

Cosa intendi?

Parliamo del nostro campo, quello che è stato travolto dalla valanga. Lo abbiamo posizionato in posto che ancora oggi considererei sicuro, ma sicuro con la mentalità di uno che è abituato a lavorare sulle Alpi. A quanto pare mettere il campo a 2 chilometri dalla parete del K2 non è una garanzia di sicurezza, perché se si stacca un seracco non sei al sicuro. E devi essere pronto ad annullare tutto, a cambiare i piani, a riorganizzarti a seconda di quello che la montagna chiede. Tanto per dire: il giorno della valanga la temperatura dell’aria a 5700 metri di quota era di 5.6 gradi sopra lo zero. Condizioni che non puoi prevedere a monte, devi saperti regolare a seconda di quello che accade. 

 

La vostra spedizione non puntava unicamente al carotaggio, corretto?

No. A corollario, collaborando con colleghi che lavorano sulle micro plastiche e sul black carbon, avevamo in programma alcuni campionamenti lungo tutto il ghiacciaio Godwin Austen. Una ricerca che sarebbe stata importante, anche perché dal punto di vista scientifico sul Karakorum non esite quasi nulla. 

Dal nostro punto di vista avevamo poi in mente di effettuare una raccolta dati che ci sarebbero serviti in futuro per un carotaggio profondo.

I materiali Ice Memory in salita verso il campo base del K2 © Riccardo Selvatico

La valanga ha immediatamente bloccato tutto, anche se fortunatamente non ha avuto conseguenze umane…

Era il primo giorno effettivo di ricerca, avevamo appena iniziato a carotare. Ricordo che con difficoltà, a causa delle temperature alte, eravamo riusciti a raggiungere i 5 metri di profondità. Quando, un paio di giorni dopo l’incidente, siamo tornati per recuperare i materiali, ci siamo redi conto che alcune cose si erano deteriorate rendendole inutilizzabili, altre invece erano andate perse. Da qui la decisione di rientrare. 

 

A livello scientifico, la vostra sarebbe stata la prima spedizione a effettuare uno studio sui ghiacci del Karakorum?

Dal punto di vista glacio-chimico, nessuno ha mai fatto campionamenti sul ghiacciaio Godwin Austen. Nel 1954, e anche prima, Ardito Desio aveva compiuto misurazioni e rilievi di tipo geologico e geografico, non campionamenti per analizzare le caratteristiche della neve e del ghiaccio. In questo senso gli unici dai che esistono sono quelli relativi a uno studio condotto dagli austriaci nella zona dei Gasherbrum. So che anche i cinesi stanno facendo qualcosa, ma non è ancora stato pubblicato nulla.

Nell’area sud del terzo polo (Himalaya e Karakorum) gli studi sulle caratteristiche dei ghiacciai sono molto limitati. Questo è dovuto, penso, anche al fatto che recuperare una carota di ghiaccio su un ghiacciaio come il Baltoro è logisticamente molto complicato, oltre alle complessità intrinseche date dalla quota. 

 

In futuro pensate di tornare per riprendere la ricerca oggi sospesa?

Nel prossimo futuro avremo un progetto dedicato alla zona dell’Himalaya, per studiare come l’ambiente montano si stia modificando e quali possono essere i rischi legati a questi cambiamenti. 

In Karakorum sicuramente vorremmo ritornare, forti anche dell’esperienza logistica che abbiamo imparato sul terreno. L’idea per le prossima spedizioni è quella di cercare un sito dove si possa lavorare in modo accurato. Si tratta dell’area glaciale più estesa dopo i poli, studiarla è fondamentale.