Il prossimo agosto, in occasione del Giubileo dei Giovani 2025, sarà canonizzato Pier Giorgio Frassati, che in appena 24 anni di vita, dal 1901 al 1925, quando morì per una poliomielite fulminante, lasciò un segno indelebile in quanti lo conobbero, spesso frequentando con lui la montagna, di cui era appassionato, come tanti figli dell’alta borghesia torinese, e non solo. A Torino nacque da genitori biellesi, suo padre Alfredo fu il fondatore e primo direttore del quotidiano «La Stampa». Nel 1918 si iscrisse al Regio Politecnico di Torino, dove 10 anni dopo si sarebbe laureato in Veterinaria Renzo Videsott, compagno di studi del mancato ingegnere Domenico Rudatis e futuro insegnante di Giorgio Rosenkrantz, che morì al Monte Api nel 1954 (la storia è raccontata da Matteo Serafin in L’altro K2, CAI/Hoepli 2023).
Frassati non ha mai smesso di affascinare quanti ne hanno scoperto la figura nell’ultimo secolo. Tra loro si annovera Antonello Sica (Sala Consilina, 1959), presidente del CAI Salerno nel 2011-2012 e accademico del GISM, il Gruppo Italiano Scrittori di Montagna, autore del libro da poco uscito intitolato Pier Giorgio Frassati e i suoi sentieri (pp. 192, 16 euro, Effatà 2024), con la prefazione di Don Luigi Ciotti, acquistabile anche su CAI Store. Sica non è un semplice autore, ma l’ideatore stesso del progetto Sentieri Frassati. Sempre lui, con Dante Colli e la cartografia di Albano Marcarini, ha realizzato L’Italia dei Sentieri Frassati, con cui la recente pubblicazione dialoga tramite QR-Code nella parte di schede tecniche. Schede dove è possibile fare applicare i nuovissimi timbri nei vari punti tappa consultabili dal sito dedicato (www.sentierifrassati.org), da poco rivisto e aggiornato.
Il libro accoglie tante testimonianze significative, come quella di Don Ciotti che da bambino frequentò la stessa parrocchia della Crocetta, a Torino (lì trasferito da Pieve di Cadore), dove si era formato Frassati, il cui ricordo, a 30 anni dalla morte, era ancora molto vivo nella gente. Il suo impegno sociale accanto agli ultimi e agli emarginati si impresse fortemente nel futuro fondatore del Gruppo Abele (di aiuto ai tossicodipendenti) e dell’associazione Libera (che lotta contro le mafie in Italia e nel mondo). Don Ciotti aveva probabilmente trovato sulla sua strada uno dei “sassolini bianchi” che aveva lasciato Pier Giorgio, per citare l’omelia che Don Antonio Cantelmi tenne il 23 giugno 1996 all’inaugurazione del primo Sentiero Frassati, in Campania: “Se mandate in montagna i vostri figli (…) non gli date solo acqua e pane”. Se si smarriscono, infatti, e le formiche avranno mangiato il pane disseminato per ritrovare la strada, saranno "i sassolini bianchi, storie, racconti", a guidarli.
Antonello Sica, sei l’inventore dei Sentieri Frassati, come hai «incontrato» Pier Giorgio?
Secondo me è un’idea che lui ha fatto camminare sulle mie gambe e nella mia testa, perché è diventata di anno in anno una cosa così grande, che una persona piccola come me non poteva da sola concepire. Ho sempre avuto questa sensazione, ma oggi che la rete si è completata in Italia per me è una certezza, anche se sogno qualcosa all’estero. Lo conoscevo fin da ragazzo, ma poi lo avevo dimenticato. In occasione della beatificazione nel 1990 all’improvviso è «tornato»: io avevo ormai 31 anni, mi ero iscritto al CAI di Salerno con mia moglie, dove stavo facendo una bella esperienza. Il presidente era stato anche presidente diocesano dell’Azione Cattolica e aveva pertanto questo tipo di sensibilità, e viceversa quelli dell’Azione Cattolica avevano ben presente la passione per la montagna di Frassati. Fu naturale incontrarci, e quando tornai a casa sentivo che qualcosa si era mosso dentro di me. Scrissi un articolo per il nostro giornale sezionale, intitolato «Sentieri Frassati?», con il punto di domanda. Ci sono voluti sei anni perché diventasse un punto esclamativo.
Determinante fu il Sentiero Italia, è così?
Non mi stanco mai di ripetere che i Sentieri Frassati sono figli del CamminaItalia di Teresio Valsesia, Riccardo Carnovalini e Giancarlo Corbellini, perché quell’esperienza ha portato all’attenzione di tutto il Paese la pratica dell’escursionismo, avvicinando alla montagna molte persone, sia pure nel rispetto della sicurezza e con tutte le attenzioni necessarie. Il primo sentiero Frassati, in Campania, è nato proprio a ridosso, nel 1996, ma fin da subito l’idea si pose come modulare, cioè tale da poter essere replicata a livello regionale, più le Province Autonome, per rispettare la loro specificità.
Questa apertura ha cambiato il progetto originale?
Sì, per fortuna! All’inizio infatti pensavo che dovessimo dedicare a Frassati il sentiero che in ogni regione conduce al monte più alto: lasciando invece libera scelta alle regioni di individuare un luogo di particolare interesse naturalistico, storico e religioso che meglio le rappresentasse, abbiamo evitato di decidere tutto a tavolino, ne sarebbe risultato un progetto preconfezionato. Questa è stata una chiave del successo che abbiamo avuto.
Nella prefazione Don Ciotti, riferendosi a Frassati, parla di tre concetti fondamentali: spiritualità, convivialità e condivisione. Sono anche le caratteristiche dei Sentieri?
Sicuramente nel determinare un itinerario la scelta è stata orientata dalla storia spirituale e religiosa della località che attraversa: in questo senso il progetto aiuta a divulgare e a condividere con altri qualcosa che esisteva già, ma che si era persa nel tempo. Al sud, in particolare, dove non abbiamo la tradizione dei rifugi, c’è però una diffusissima e secolare frequentazione delle piccole cappelle di montagna, come del resto rilevavano proprio Carnovalini, Corbellini e Valsesia, che all’epoca era anche Vice Presidente Generale del CAI. Con i Sentieri Frassati abbiamo fatto un recupero storico e naturalistico di questa antica rete, che non veniva più percorsa da anni, perché passava in zone sempre meno abitate, e anzi l’abbiamo implementata, come successo in Campania, dove abbiamo collegato vie prima separate. L’intitolazione a Frassati ha a che fare con il suo approccio alla montagna, in cui vogliamo ritrovarci.
In cosa consiste il Sentiero Frassati Internazionale dell’Italia?
Fra il 1996 e il 1999 avevamo aperto 5 itinerari. Il Giubileo del 2000, che avrebbe portato in Italia molte persone dall’estero, sarebbe stata l’occasione perfetta per lanciare l’idea di un Sentiero Internazionale. Per questo abbiamo inaugurato un secondo itinerario in Piemonte, perché rappresentasse l’Italia in quella che io ancora oggi, a distanza di 25 anni, auspico che sia la rete internazionale dei Sentieri Frassati, che ne preveda uno in ogni nazione.
Ci sono stati progressi, in vista della canonizzazione?
Al momento no. Ci sono stati contatti in passato con persone che conoscevano Pier Giorgio e hanno aiutato a divulgarne la figura, per esempio in Polonia, da dove proveniva una parte della sua famiglia, visto che la sorella Luciana aveva sposato un diplomatico polacco, però al momento non si è concretizzato quell’interesse pratico necessario a partire davvero. Nutro speranza in questo Giubileo del 2025, e nell’annunciata canonizzazione, ma senza forzature: in Trentino sembrava che partisse tutto subito e invece ci sono voluti 10 anni, ma è il più lungo, 100 km. Ogni sentiero ha la sua storia, tutte diverse.
Una in particolare?
L’intitolazione a un terziario domenicano come era Frassati in uno dei luoghi simbolo della spiritualità francescana. Succede in Toscana, dove il sentiero passa intorno all’Eremo della Verna, dove San Francesco ha ricevuto le stimmate: si mette il piede là dove molto probabilmente ha camminato lui, sembra di avercelo accanto. È il più breve di tutta la rete, per fare il giro intorno ci vogliono meno di due ore, più una per salire al Monte Penna. Quando facemmo la proposta al padre guardiano dell’Eremo, timidamente perché temevamo che la prendesse come un affronto, ci disse invece: quella di Pier Giorgio Frassati è una spiritualità francescana, non c’è luogo più bello da intitolargli in Toscana.
È questo l’approccio alla montagna di Frassati?
La montagna è così grande e bella che riesce ad appagare sempre in maniera positiva le aspettative di chiunque. Ma io sintetizzando da anni ripeto: la montagna rappresenta nell’esperienza dell’uomo una palestra che allena, una scuola che educa e un tempio che eleva. Pier Giorgio ha vissuto queste tre dimensioni intensamente, senza privilegiarne una a scapito dell’altra. Andava in montagna per fare qualcosa di impegnativo, ma stando insieme agli amici e senza dimenticarsi della presenza del Signore. Anzi, facendola avvertire con naturalezza anche agli altri, fino alla fine: il Sentiero del Piemonte a Traves è quello che lui ha percorso un mese prima di morire. Per lui la montagna non era un fine, ma un mezzo, e infatti non ha esitato a farne a meno se aveva qualcosa di più importante da fare. Di queste nel libro ci sono alcune testimonianze, fra cui anche alcune di suo pugno. Siamo fortunati che abbia scritto così tanto, nonostante la sua giovane età, era un ragazzo molto social.
Frassati social? In effetti anche Carlo Acutis, che verrà canonizzato sempre quest’anno, era molto attivo sul web, tanto da esserne considerato il patrono…
Frassati era social con i mezzi a disposizione alla sua epoca, quando esistevano solo carta e penna. Demonizziamo i social senza renderci conto che rispondono a un bisogno di comunicazione.
Scrivi che, nonostante sia una figura religiosa, il CAI, «la più grande e antica associazione italiana di amanti della montagna», ha accettato il progetto e lo ha portato avanti negli anni, senza che si generasse «irritazione» o scoppiasse il «putiferio». Come mai Frassati non è stato divisivo?
Per me è un miracolo, semplicemente, quando anche solo il parlare di croci di vetta suscita tanto clamore. Penso che sia così perché questa è sempre stata un’iniziativa dal basso. Non abbiamo mai messo in imbarazzo i vertici CAI, che pure ci hanno sempre sostenuto fin dalla presidenza di Roberto De Martin (sua la prefazione al volume Il Sentiero Frassati della Campania, edito nel 1996, con la prima inaugurazione, NdR), non abbiamo mai chiesto di ratificare delibere, che è un momento in cui si possono creare fratture, per via della diversità di veduta. C’è stata invece molta condivisione e libertà fra Sezioni CAI territoriali e regionali.