Il grande cielo

"Il grande cielo", l’ultimo libro di Alberto Rollo, è in libreria. È stato pubblicato per la collana Passi di Ponte alle Grazie e Club alpino italiano. Ve lo raccontiamo con un’intervista all’autore
Sasso su sasso si alzano in piedi: non lo fanno per scrutare il paesaggio, ma per lasciarsi guardare. Gli ometti di pietra, con la loro eleganza garbata, indicano la via. Nel lessico alpinistico/escursionistico, infatti, rappresentano un appiglio visivo per chi si vuole inoltrare nelle trame dei rilievi più complicate da leggere. L’ultimo libro dello scrittore, critico ed editore milanese Alberto Rollo, Il grande cielo (pubblicato per la collana "Passi" di Ponte alle Grazie e Club alpino italiano), è un lento susseguirsi di ometti. Sembra infatti che l’autore abbia cercato di individuare, nell’articolato percorso della vita, i principali punti di riferimento che hanno contribuito a caratterizzare il suo rapporto con le montagne e, perché no, che hanno educato il suo sguardo e il suo modo di interpretare il mondo. Gli ometti si fanno così metafora di relazioni, letture e osservazioni: riferimenti letterari, riflessioni sull’alpinismo e su alcuni sport praticati in montagna; fotografia, cinema, arte. Da Walter Bonatti a Mario Rigoni Stern, da Giovanni Bellini a Giorgio Diritti, da Franco Brevini al padre dell’autore. Proprio nella figura del padre, a ben guardare, è custodita l’anima di questo libro, perché essa è in grado di evocare episodi biografici e, allo stesso tempo, importanti stimoli formativi. Non è infatti un caso che sia proprio la sagoma del padre a profilarsi nella raffinata copertina del libro, opera dell’acquarellista Nicola Magrin. Unendo biografia e formazione, dunque, Rollo offre ai lettori la possibilità di scoprire, ometto dopo ometto, pagina dopo pagina, il percorso che fin qui ha seguito, con i suoi affetti, le sue esperienze e le sue emozioni più intime.
Il grande cielo copertina
La copertina de "Il granxde cielo"

L'intervista ad Alberto Rollo

I tuoi non sono i rilievi di chi è nato in montagna, sono i rilievi di un uomo di metropoli che ha conosciuto gradualmente le alte quote. Quanto è importante il legame con la pianura – un legame che tra l’altro emerge a più riprese nel libro – e, quindi, quanto è importante lasciarsi influenzare anche dalla pianura per una persona che scrive di montagna? «Per me montagna e metropoli sono complementari, stanno assieme come fossero due pale d’altare nella pittura. Le attraverso con un passo che in fondo si somiglia, che è il passo dell’esperienza, che è il passo del guardare e del lasciarsi guardare. Io non sento tanto la pianura: io sono un uomo di metropoli più che di città. Della metropoli, la montagna è esattamente il suo contraltare. C’è qualcosa di antico in tutte e due ed è questo che mi affascina. Da un lato mi affascina la contemplazione di un mondo tutto costruito e dall’altro di un mondo tutto selvaggio, tutto rude, tutto evidente nella sua naturalità». Eppure negli ultimi decenni il carattere ruvido, naturale, selvaggio, se vogliamo, dei territori alpini è andato via via scomparendo, soprattutto a causa degli sviluppi dell’attività turistica. Il turismo ha rappresentato un’importante risorsa per i territori montani, ciononostante in diverse occasioni si è trasformato in una realtà economica speculativa. Tu stesso ne parli nel libro, accennando alla minaccia che incombe sul Vallone delle Cime Bianche in Val D’Ayas. Qual è a tuo parere il limite oltre il quale il turismo, più che portare dei benefici, danneggia irrimediabilmente il territorio e, di conseguenza, in modo del tutto paradossale, la carica attrattiva di una località? «Ci sono due tipi di turismo. C’è un turismo esperienziale che è quello di chi sale alla ricerca di percorsi e di visioni nuove, e poi c’è un turismo che io chiamerei predatorio. Nel turismo predatorio considererei due elementi. Quello passivo, di chi vuole solo portare via qualcosa dalla montagna, che accade a valle e che non sente l’esigenza della salita, del confronto con i sentieri ad alta quota; quello in cui si mangia, si va in automobile e si prendono le funivie e le seggiovie. Ecco, è un modo di fare turismo che mi inquieta. E poi c’è un turismo predatorio attivo, che prevede un tipo di esperienza performativa. Come avrai notato, leggendo il libro, io ho una simpatica antipatia nei confronti dei runner e di tutti quelli che si mettono alla prova con gli orologi, con i tempi, e con le misure. Sono convinto si possa invece trovare una convivenza salutare con le montagne, perché poi sono proprio le montagne a porre dei limiti. È impossibile impedire alle masse di muoversi, tuttavia si può incentivare una cultura della montagna, che non significa solo percorrerla, ma anche percorrerla con una prospettiva storica. Ormai siamo di fronte al fatto che dobbiamo conoscere il nostro passato attraverso anche quello della montagna, e non soltanto dei monumenti. Le montagne sono enormi monumenti di cui sarebbe bene conoscere la storia. Andare ciechi verso quella che viene sentita come bellezza non basta, bisogna addentrarsi verso una dimensione storica della montagna». Tra le pagine del libro si nota chiaramente una scrupolosa attenzione terminologica. Quanto è importante, in un panorama socio-culturale contemporaneo spesso proiettato verso l’estrema semplificazione, un utilizzo lessicale preciso? «Sfondi una porta per me fondamentale. La precisione terminologica - e quindi la lingua che parla la montagna - bisognerebbe non solo rispettarla, ma anche studiarla di più. Credo che un vero montanaro abbia qualche dovere di tipo conoscitivo che ha a che fare con la terra, con la formazione delle rocce, e via dicendo. Bisogna saperle tutte queste cose. Bisogna saperle e farle sapere».
Alberto Rollo Montagna
Alberto Rollo in montagna © Ponte alle Grazie
Le montagne, soprattutto dall’affermazione degli Stati Nazione, vengono frequentemente sfruttate come marcatore naturale di confini: un baluardo, una barriera, un muro geografico, nonché visivo. Questo impedimento visivo, ma non solo, stimola tuttavia la curiosità di spingersi oltre per scoprire un mondo che, nonostante tutto, conserva ancora un carattere misterioso, soprattutto per chi risiede ai piedi della catena alpina. Quelle tracciate con l’aiuto delle montagne sono frontiere nette oppure la curiosità sopraccennata le rende più sfumate, meno rigide? «Più sfumate non so, ma sono certamente frontiere attraversabili e che invitano all’attraversamento. Non è un caso che quando in Europa si afferma la politica del Grand Tour, dello scendere in Italia, le Alpi non vengono sentite come una frontiera, semmai come un’area di congiungimento tra nazioni diverse, tra esperienze diverse e tra lingue diverse. C’è una meravigliosa poesia di Friedrich Hölderlin in cui si parla dei tre fiumi - il Rodano, il Ticino e il Reno - che nascono nell’area svizzero-tedesca e vanno verso frontiere differenti. Ecco, lì dentro c’è lo spirito dell’Europa. I fiumi non hanno bisogno di parlare: sono il segnale che esiste una connessione tra popoli diversi e lingue diverse. Le montagne non sono frontiere, sono i punti originativi della nostra civiltà: tutto nasce là». Da dove è nata l’esigenza o, comunque, il desiderio di raccontare, ometto per ometto, il tuo rapporto con la montagna? «Io penso che, se uno deve scrivere, dev’essere spinto da un’urgenza e in questo caso l’urgenza era mettere a disposizione un lascito non specialistico. Mi piaceva l’idea di lasciare qualcosa dell’esperienza di quarant’anni e più di rapporto con le montagne e di farle sentire come se fossero degli eroi di un poema epico. Le montagne sono là, che resistono, sotto il grande cielo, e continuano a dirci delle cose». Il grande cielo. Educazione sentimentale di un escursionista (208 pagine) è disponibile a un prezzo di 16 euro in libreria e su store.cai.it. Qui i soci del Club alpino italiano potranno acquistarlo a un prezzo scontato.