Giampaolo Calzà: "Le foto di montagna raccontano la nostra storia"

La guida alpina e fotografo trentino vive e lavora nell'Alto Garda, un territorio in grande trasformazione. "Amo gli ambienti maestosi e ci sono ancora luoghi poco frequentati, basta non seguire i social"
Su Delenda Cartagho alla prima torre del Sella © G. Calzà

Giampaolo Calzà è guida alpina e fotografo, i suoi scatti raccontano una natura protagonista del paesaggio, dove l'uomo è un elemento che si integra nell'ambiente, piuttosto che la figura dominante. Le sue vie corrono su pareti nascoste o poco battute, spesso però insospettabilmente vicine al nostro sentiero o davanti ai nostri occhi. Pur avendo partecipato a spedizioni internazionali importanti- diverse quelle in Patagonia -, il suo sguardo e le sue mani sono abituati a posarsi abitualmente sulla roccia dell'Alto Garda e del Brenta.

 

Come hai iniziato ad andare in montagna?

In famiglia. I miei genitori forse erano un po' spericolati per gli standard odierni, ma a quattro anni mi ricordo di essere salito al rifugio XII apostoli [Dolomiti di Brenta, ndr]. Ho fatto la Scala Santa, non so se tutto il percorso, ma presentava un certo impegno sicuramente. Poi sono stato "adottato" dalla SAT di Riva: moltissime gite con loro, fino alla mia prima cima, l'Ortles, con un professore che amava andare in montagna. A 14-15 anni ho iniziato con l'arrampicata sportiva. Mi ricordo che ero in bicicletta, ero passato per la Spiaggia delle Lucertole. Li ho visti su [tutto il gruppo di Bassi, Manolo, Maricher, Iovane, ndr]. Vederli arrampicare lì, su una parete del genere...mi ha dato uno stimolo. E poi un'altra volta, ad Arco, stavo andando a scuola e c'erano Sten [Giuliano, Stenghel, ndr], Palma Baldo, Giovanni Groaz, stavano arrampicando su una via che saliva al Castello [probabilmente la Città di Arco, 1983, ndr]. Sono rimasto a guardarli estasiato...quel giorno a scuola non ci sono andato!

 

Le prime vie lunghe?

Un anno, a fine stagione, sono andato con un mio amico a fare lo spigolo della seconda torre del Sella. E mesi dopo, a giugno, la prima via che siamo andati a fare è stata la via dei Fachiri a Cima Scotoni. Quella volta ho arrampicato quasi tutto da primo e non era una via banale. E poi non avevo nemmeno chiodi e martello. Siamo saliti con quel che c'era, che era quasi niente...Lì ho preso un po' il via, l'anno dopo ero a fare Tempi moderni e via dicendo.

 

Nelle tue foto l'uomo c'è, ma spicca soprattutto l'ambiente di montagna.

Sono quasi quarant'anni che fotografo e ho passato varie fasi. Venendo dal mondo della montagna all'inizio tendevo a darle la scena quasi completamente. Ma poi ho progressivamente cercato di contestualizzare la natura con l'uomo. Faccio spesso foto con persone molto piccole per rendere la grandiosità dell'ambiente, ma in fondo corro sempre dietro alla storia dell'uomo, al percorso che fa. Mi interessa raccontare lo spostamento, che non è solo movimento. Riguarda anche la nostra storia. Se rivedo alcune foto degli anni '80, dove gli scalatori sono in pantacollant e le paragono a quelle di oggi...capisci che in fondo raccontiamo la nostra storia.

L'uomo come elemento che si inserisce un ambiente maestoso © G. Calzà

Non trovi che nel modo di fotografare di oggi ci sia una predominanza dell'uomo, anche in montagna?

Il selfie è proprio una foto che ha lo scopo di fare vedere che si è lì ed è un meccanismo che non riguarda solo i privati. Vedo che anche le agenzie di promozione turistica vanno dietro a questo modo di raccontare l'ambiente, che un po' è anche svendere il territorio purtroppo, con il risultato che poi la gente davvero si concentra in determinati luoghi. La fotografia è diventata anche un indizio, a volte persino fuorviante. Se pubblico una foto di una mia gita di scialpinismo, poi la gente la vede e sicuramente qualcuno ci va, perché vede la neve bella. Ma una foto non è sufficiente a raccontare la complessità della montagna e nemmeno la sua storia. In un certo modo abbiamo svalutato la montagna, quella foto dice che ci puoi andare anche tu. Ma non è vero, o per lo meno sono tanti gli aspetti da considerare: per la sicurezza innanzitutto...ma anche per la ricchezza di un luogo, che non può essere limitata a quello che entra in una foto.

 

Hai l'impressione che le nuove generazioni abbiano un approccio diverso? Forse sono meno incoscienti in generale, ma allo stesso tempo sottovalutano certe complessità della montagna.

Il valore che si dà alla vita oggi è diverso, è cresciuto. Quando ero ragazzino saltavamo i chioidi apposta, oggi le falesie sono chiodate come sappiamo. Ho diversi progetti con i bambini e vedo che c'è una grossa novità: oggi molte esperienze possono essere appagate già in modo virtuale, il che ovviamente è un appagamento parziale. C'è un freno in partenza perché i genitori sono più premurosi e perché appunto tante cose si possono vivere in modo mediato. Noi invece vivevamo le nostre emozioni al cento per cento. Ti faccio un esempio: andavamo senza sapere il meteo, per il semplice fatto che non c'erano le previsioni. Imparavamo ad arrangiarci per mancanza di alternative, ma crescevamo davvero perché affrontavamo i momenti difficili. Credo che solo difficoltà molto elevate, i problemi, gli imprevisti, ti possano far fare quel salto di crescita. A loro manca questa condizione e diventa anche più difficile poi essere in grado di valutare, di capire, di trovare il limite.

Sul Cerro Torre, nel 2001 © G. Calzà

Arrampichi spesso con tuo figlio. Cambia anche per te la percezione della montagna?

Una volta si partiva con le classiche e poi via a salire. Oggi invece, a volte, il percorso è inverso. Per Andrea una classica è un modo per conoscere la storia dell'alpinismo, ma i ragazzi partono già con vie moderne e poi in un secondo momento hanno voglia di conoscere meglio tutto quello che c'è stato prima. Questa estate siamo andati a fare Elisir di giovinezza, accanto alla Detassis, non l'ho trovata per niente banale. Ma l'ho portato anche a fare la Super Ciano: una via moderna ma a chiodi. Per fargli capire nel concreto la differenza tra spit e chiodi.

 

In arrampicata sei riuscito ad aprire vie in luoghi vicini, eppure difficili, poco battuti. Mi viene in mente la tua via a Cima Capi, a quali altre sei affezionato?

A Cima Capi abbiamo aperto il Vento del ricordo, quella è una parete che si può dividere in due. La parte bassa è ostica, anche come accesso, come condizioni ambientali. Ha avuto una ripetizione dopo moltissimi anni [Francesco Salvaterra, ndr] e mi hanno confermato che ci vuole impegno. Poi mi viene da pensare alla Michele Nogler, dedicata come quella di Cima Capi a un nostro amico, morto sotto una valanga. L'abbiamo aperta alla Gola del Limarò, quando ancora non c'era niente lì, manco si sapeva come arrivarci. E stata un'avventura, con Danny Zampiccoli, era la primavera del 1988.

 

L'Alto Garda è un territorio che indubbiamente sconta il fenomeno dell'overtourism. C'è spazio ancora per una montagna vissuta in intimità?

Sì perché ci sono luoghi poco frequentati e altri ad alta concentrazione. Pochi giorni fa sono andato sul Monte Misone, che è un fenomenale spartiacque tra le montagne del Garda da una parte e Adamello e Brenta dall'altra. Un luogo magnifico anche come vista, ma avrò incontrato due persone. Ma poi mi viene in mente la catena del Tofino...di posti ce ne sono parecchi, ma bisogna andare, senza guardare troppo i social.