Giù nella valle. Intervista a Paolo Cognetti

Le Alpi come l’Alaska, la Valsesia come l’America. Un nuovo libro, una nuova fondazione, una vecchia passione: Paolo Cognetti con “Giù nella valle” trova il punto di equilibrio fra le sue diverse anime.
La copertina di "Giù nella valle" di Paolo Cognetti, Einaudi 2023

L’ultimo libro di Paolo Cognetti si intitola Giù nella valle (pp. 128, euro 16,00, Einaudi 2023) e a un occhio distratto (o cinico) questa “discesa” potrebbe sembrare un facile compromesso per mettere d’accordo l’anima cittadina con quella alpina dello scrittore che ha sdoganato la letteratura di montagna in Italia, vincendo il Premio Strega nel 2017 per il romanzo Le otto montagne. Un successo letterario mondiale rilanciato dalla trasposizione cinematografica insignita a Cannes con il Premio della Giuria (2022) e in Italia con un David di Donatello (2023) come “Miglior film” (e non solo). 

Invece, se compromesso c’è, è per chiudere un cerchio: in questo libro Cognetti trova finalmente il modo per unire tutte le sue anime, collegando la passione per la montagna con quella per la letteratura americana, che aveva segnato i suoi esordi editoriali. La storia, impreziosita dalla ormai consueta copertina disegnata da Nicola Magrin, si sviluppa come un romanzo breve ambientato in una Valsesia che sembra l’America dei grandi deserti. Spazi immensi puntellati da scarni agglomerati urbani nati intorno alle stazioni di servizio da cui passano autostrade infinite che corrono nel nulla. Quelle caratterizzate dalle insegne al neon, alla cui luce vivono anime in cerca di futuro e di speranza, come sono Luigi ed Elisabetta, in attesa del loro primo figlio. Lei è milanese di origine, lui ha sempre vissuto in Valsesia, con suo padre e suo fratello: morto suicida il primo, ex carcerato l’altro (Alfredo) che si è trasferito in Canada per rifarsi una vita. Il ritorno di Alfredo per la vendita della casa del padre, che Luigi e Betta vogliono per sé (senza dire che la pista da sci in costruzione proprio di fianco potrebbe aumentarne parecchio il valore) e nel cui giardino sono stati piantati dal padre un larice e un abete quando i due fratelli sono nati, innesca una spirale di eventi dagli esiti opposti e imprevedibili. Una scrittura matura, come la definisce lo stesso Cognetti, rodata nel precedente La felicità del lupo, da cui riprende molti elementi, ricca di omaggi ai libri più amati, come quelli contenuti nel volume New York Stories da lui curato, di cui a novembre uscirà una nuova edizione. 

Non solo. C’è molta musica fra le righe, perché l’idea arriva dall’amatissimo album Nebraska di Bruce Springsteen, nato dopo un tour chiamato The river, il fiume, come il racconto di Flannery O’ Connor a cui si è ispirato. Il fiume è uno degli elementi frequenti nella scrittura di Cognetti e questa potrebbe essere una coincidenza che ci mostra un’affinità elettiva fra i due, oltre che del debito di entrambi verso la O’ Connor, autrice di molti racconti. Ma gli influssi letterari, filosofici, antropologici, poetici, sono davvero molti. 

Paolo Cognetti

Cognetti, classe 1978, ha appena aperto una fondazione a suo nome (il sito è online da pochissimo, leggi l'articolo sullo Scarpone) e uscirà l’anno prossimo con un nuovo documentario, Fiore mio, pensato come le Trentasei vedute del Monte Fuji di Hokusai, ora al montaggio. Le riprese si sono svolte da aprile a settembre, il periodo in cui si trasferisce in Val d’Aosta, nella baita di Estoul, in Val d’Ayas. Parla del tempo che attraversa le stagioni, del ritorno del lupo, dello scioglimento dei ghiacciai. Sono temi che negli anni ’90, quando è ambientato Giù nella valle, erano ancora lontani.

Paolo Cognetti, si avverte fortissima l’impronta della letteratura americana, tua prima passione, come mai adesso?

«Ho sentito forte il bisogno di tornare alle mie origini letterarie e ho scoperto che la mia montagna non è quella millenaria di Mario Rigoni Stern. Quindi ho preso il mito americano della frontiera che si ritrova in Jack London e Ernest Hemingway e l’ho portato qui. Le Alpi sono la mia Alaska, come lo erano per Bonatti».

Nelle note finali spieghi che il libro nasce dall’ascolto di un album di Springsteen, Nebraska, che da adolescente hai consumato, e parli della copertina del disco, in bianco e nero, con la scritta rossa. Tutto il libro sembra seguire proprio quell’estetica, costruito sul contrasto luce-oscurità.

«Hemingway scriveva così, in bianco e nero, con l’occhio da fotografo, spesso soffermandosi sui dettagli in penombra. Ci sono pochi colori nei suoi libri».

Suoni qualche strumento?

«Mia madre mi aveva iscritto a un corso di chitarra classica, ma come spesso succede all’epoca non ne avevo voglia. Però la chitarra l’ho tenuta e l’ho ripresa ultimamente. Ho imparato un centinaio di brani, ascoltando molto folk, Springsteen ovviamente, ma anche Lou Reed e Bob Dylan. Tutte le mattine suonavo, compiendo il mio rito psico-magico».

In generale tutto il libro è molto visivo, si legge come un film.

«L’esperienza bellissima del film Otto montagne mi ha molto cambiato, ora spesso mi trovo a scrivere pensando a due attori in scena».

È particolare la struttura narrativa: un romanzo breve, i cui capitoli si possono leggere come racconti a sé, aperto da una sorta di capitolo-concept e chiuso da un piccolo poema che parla di una ancestrale lotta fra alberi. Da dove arrivano queste suggestioni?

«Lavorando al libro ho letto molto su Springsteen e ho scoperto che tutto il disco Nebraska è nato da una sola canzone, quella che si intitola così. Io ho scritto il racconto iniziale sui cani (ispirato al film di Terrence Malick Badlands - La rabbia giovane, NdR) un anno prima del resto e l’ho inserito perché mi sembrava che dentro ci fosse già tutto. E l’ho scritto prima che venissero fuori le notizie sulle uccisioni degli orsi in Trentino. Sto leggendo molti libri sul bosco e sugli alberi, come quelli di Mancuso, e mi sono imbattuto in Robert Graves e nei suoi studi sul culto arboreo collegato a quello della luna. Ho immaginato gli alberi come sacerdoti-eroi in lotta contro gli uomini che li abbattono».

Anche i protagonisti sono tratteggiati in bianco e nero, tranne uno, Elisabetta, l’unica donna: lei è la luce. È un caso che vi assomigliate molto, a partire dai capelli rossi?

«I capelli rossi sono un indizio, lei ha anche iniziato ad andare in Valsesia a 15 anni, come me, si è trasferita lì, come me in Val d’Aosta… I personaggi sono perduti, sono dannati, lei no».

Le citazioni dalla letteratura americana sono molte, però non c’è lo stesso vuoto, la stessa disperazione che domina i libri di Carver o di Yates. C’è speranza, in fondo.

«I protagonisti sono gli stessi della Felicità del lupo, che è sempre ambientato a Fontana Fredda (Fontane è la località dove si trova la residenza artistica di Cognetti, a Estoul, NdR). Non si capisce molto, ma Luigi ed Elisabetta sono Babette e Santorso da giovani, Babette richiama il racconto di Karen Blixen con cui identifico Elisabetta. Non volevo che la loro storia finisse così. La speranza è lei, Elisabetta».

Ci sono molti temi ricorrenti nella tua scrittura, il rapporto conflittuale con la figura del padre, o fra due fratelli-amici che qui sono Alfredo e Luigi, prima Bruno e Pietro, poi c’è il fiume…

«C’è anche una casa di mezzo, come nelle Otto montagne, là dovevano costruirla insieme, qui la devono spartire. I temi ricorrenti sono dovuti al fatto che mi sento ora nella fase della maturità di uno scrittore, padroneggio i miei mezzi, quando per anni mi sono sentito maldestro. Conosco i miei simboli e ogni volta che scrivo aggiungo un pezzo, come con un puzzle».

La tua Valsesia è come l’America, quella vasta e desolata dell’entroterra desertico, e bisogna costringersi a ricordare che il libro è ambientato in Italia. Quando hai capito che il paragone poteva reggere?

«Quando andiamo in Val d’Aosta viviamo la montagna delle favole, le valli sono dominate da un castello. La Valsesia invece è la montagna operaia, c’era il tessile, le lotte sindacali e poi la piovosità soprattutto e il fiume, la Sesia. Sono partito da lì. Anche dalla Valsesia si vede il Monte Rosa, sebbene tutti se ne siano scordati».

“La” Sesia?

«Spesso nei dialetti locali i fiumi sono al femminile, me ne sono accorto quando ho realizzato un documentario sul Piave, scoprendo “la” Piave e “la” Brenta. “La” Sesia è come lo chiamano i locali, e pure in patois valdostano i fiumi sono femminili. Nella Felicità del lupo avevo affrontato la femminilità degli alberi, qui quella del fiume».

Nebraska ha avuto una forte impronta su di te, come succede spesso alle esperienze che si vivono da adolescenti e che poi ritornano, anche anni dopo.

«Ci sono momenti in cui metti a fuoco miti e persone e ci torni sopra. E poi di recente sono tornato a viaggiare in Nord America per il film Sogni di grande Nord (regia di Dario Acocella, un’anteprima in concorso nel 2021 al Trento Film Festival, NdR). Quando scrivevo Giù nella valle ho riletto molto Carver, Alice Munro, Hemingway, quelle letture che ti formano quando hai circa 20 anni. Per me erano gli anni ‘90, quando c’erano le cabine telefoniche e le cassette. Per questo ho ambientato il libro in quell’epoca, perché io c’ero e posso ricordare com’era. A rigore avrei dovuto ambientarlo prima, a quando risale la costruzione della pista da sci di cui si parla, ma non potevo perché non c’ero. In questo non sono stato precisissimo».

È il motivo per cui il tema ambientale è solo accennato?

«Allora quel tema non aveva l’urgenza di oggi, era visto solo come opportunità. Però nel libro ci sono le angosce del presente».

Quali sono le angosce del presente?

«Mi spaventa l’escalation di rabbia, violenza, aggressività. Amo la gentilezza, mi sento un vaso di coccio fra palle di cannone, anche se io ho imparato a farmi valere, con la mia scrittura. Credo che succeda perché ormai sono morti tanti di quelli che avevano vissuto la Seconda guerra mondiale e gli orrori del Novecento. Con loro stiamo perdendo la memoria».

Abeti e larici. I due alberi sono anch'essi “protagonisti” del libro © Andrea Greci