Gary Hemming, l'alpinista fragile

Gary Hemming, l’alpinista visionario e ribelle, avrebbe oggi 90 anni: un’esistenza breve e intensa, segnata da imprese, amori tormentati e una ricerca spirituale che lo portò a sfidare la vita con un orizzonte di pace, non di conquista.
Gary Hemming

Oggi l’alpinista californiano Gary Hemming compirebbe 90 anni. Fa impressione pensare che potrebbe essere ancora qui con noi, lui che era già nel futuro negli anni Sessanta del Novecento. Ma Gary era speciale, e forse un po’ immortale.

Per tutta la vita è stato fedele al patto siglato da ragazzo con Pete Sinclair, sulla sponda del Rio Grande: “Giuriamo davanti a Dio e agli uomini che non diventeremo mai e poi mai due sporchi benpensanti con l’abito buono e lo schifo addosso, e non sprecheremo una sola goccia di ispirazione per imitare il consumatore americano”. Nel passaggio iniziatico dall’adolescenza all’età adulta, i due amici ribelli scandiscono come un mantra le parole di Henry David Thoreau: “Volevo succhiare tutto il midollo della vita, vivere da gagliardo spartano, tanto da distruggere tutto ciò che non fosse vita, e falciare ampio e raso terra”.

 

La vita di Gary Hemming

Hemming l’ha fatto senza risparmiarsi per 35 anni, quelli della sua vita, scalando l’impossibile sul Monte Bianco (in particolare la diretta americana al Dru e la parete sud dell’Aiguille du Fou), amando disordinatamente, sperando e soffrendo, soprattutto dopo la morte dell’amico John Harlin sulla parete nord dell’Eiger, nel 1966. Lo stesso anno è diventato famoso salvando due tedeschi incrodati sul Petit Dru, e la fama l’ha inebriato e distrutto come capita alle persone sensibili e fragili. Come è capitato a Luigi Tenco, a Kurt Cobain, a Sinéad O’Connor. Per me la sua impresa più bella resta il suo traverso a pelo d’acqua nella Calanque d’En Veau. Provando e riprovando i passaggi a pochi centimetri dal mare, bagnato di sale, ubriaco di sole, sentiva che il corpo e lo spirito rinascevano. Il gioco era più appassionante di un’ascensione perché non c’era vetta da raggiungere né cielo da scalare: il lungo guado assomigliava alla vita, la traversata da un posto che conosciamo a un altro che non sappiamo. Una sequenza di azioni perfette o perfettibili, che non portano su nessuna cima. Gli alpinisti contavano il vuoto che fabbricavano salendo e se ne vantavano – pensava Gary – invece lui era sempre a zero metri sul livello del mare, e mentre creava la via l’acqua la cancellava. 

Quel giorno ha capito che se la conquista è un ardire verticale, per la pace si cammina in piano. Un orizzonte, non una vetta. Quando è arrivato al fondo della traversata ha scoperto che il capo di calcare non esisteva. La fine della via non era un punto geografico e l’attraversamento che imitava la vita non moriva in nessun luogo: cambiava forma per rinascere in altre sembianze, su scogliere sconosciute.