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Era il 1994 quando uscì il film Forrest Gump: anche dopo 30 anni è impossibile non ricordare la struggente vicenda di quel ragazzone americano considerato troppo “stupido” dalle istituzioni, che invece stupì il mondo distinguendosi sia per il coraggio in guerra (siamo al tempo del Vietnam), sia per meriti sportivi, fra cui la lunghissima corsa attraverso gli Stati Uniti, così ispirazionale da diventare un simbolo ben oltre i confini della finzione. Il film si basava sull’omonimo romanzo di Winston Groom (che combatté davvero in Vietnam e viveva in Alabama, da dove la narrazione prende il via), pubblicato nel 1986. Per scriverlo si era ispirato a un ragazzo suo vicino di casa.
Non poteva sapere che, mentre quella storia prendeva forma sulla pagina, a migliaia di chilometri di distanza, nella piccolissima regione delle Marche, nasceva la leggenda del “Forrest Gump piceno”, che entrava nel mito portando a termine una corsa di 48 ore non stop. Quell’atleta era il padre dello scrittore Angelo Ferracuti, che dopo il film qualcuno soprannominò Il figlio di Forrest Gump, come si intitola il suo ultimo libro (pp. 228, 18,50 euro, Mondadori).
L'ultra atleta che sfidava l'anagrafe
Va detto subito: Mario Ferracuti è stato paragonato al personaggio che a Tom Hanks valse il secondo Oscar consecutivo solo per l’incredibile resistenza nella corsa, non per altro. La sua ascesa ha dell’incredibile: il Ferracuti atleta nacque infatti tardivamente e per caso, a 48 anni, come reazione a un cancro alla parotide, la ghiandola salivare più grossa che abbiamo. Mario iniziò a correre nel 1972, dopo una lunga convalescenza seguita all’intervento, in un periodo in cui diventavano famose in Italia le marcialonghe (anche la prima Marcialonga, la regina delle gare di fondo con gli sci, risale al 1971). Nonostante gli inizi poco incoraggianti, quell’ometto dal fisico asciutto, ciarliero al limite del logorroico e democristiano convinto dal cuore anarchico (così ne scrive il figlio Angelo) prese la corsa come sfida personale, forse come rivalsa verso una vita iniziata nelle più severe difficoltà (una madre anaffettiva che con lui usava il bastone e mai una carezza) e proseguita con poche soddisfazioni sia politiche che professionali.
Dopo le prime maratone, iniziò a correre gare sempre più impegnative, nel 1975 la prima 100 km del Passatore da Firenze a Faenza, e le altre 100km in Francia, Svizzera, Spagna, Finlandia, abbassando sensibilmente i suoi tempi di percorrenza. Ma non bastava, perché ogni sfida vinta è una provocazione a rilanciare: mentre dunque si teneva “allenato” partecipando alle più prestigiose maratone nelle strade di New York, Londra, Mosca, Budapest, Amsterdam, Zurigo, Atene, Bruxelles, Stoccolma, Helsinki, Parigi, Barcellona, Jerba, si affacciò al mondo delle Supermaratone a tappe. Come il “Giro di Danimarca”, 308 km, o la Strasburgo-Parigi, 500 km, la Firenze-Mosca, 4200 km, o quella della Foresta Nera nel 2000, 240 km fra montagne e boschi, all’età di 58 anni. Sì, perché vittorie e piazzamenti Mario li conquistava spesso fra gli sguardi attoniti degli astanti, che non potevano credere come il più vecchio in gara potesse esprimere una simile determinazione e resistenza, fisica, ma anche mentale, imprescindibile quando si sostengono sforzi così intensi e prolungati.
Quando dunque Groom iniziò a scrivere il suo Forrest Gump, avvenne l’exploit che consacrò per sempre il mito atletico di Mario Ferracuti: dalle 12 di venerdì 17 alle 12 di domenica 19 maggio 1985 nel Campo Scuola di Atletica Leggera di Ascoli Piceno, sopra il Colle San Marco, corse 48 ore, sfidando il sonno, il freddo notturno e il rischio di disidratazione. Non i 3 anni, 2 mesi, 14 giorni e 12 ore del Forrest Gump hollywoodiano, ma abbastanza per diventare il terzo italiano per numero di gare effettuate, orgoglioso ambasciatore nel mondo della sua città, Fermo, che tutta lo pianse quando morì, nel 2018.
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Il figlio di Forrest Gump
“Devi scrivere di me”. Ormai in fin di vita, a 92 anni, vedovo e malato, Mario Ferracuti inchioda il figlio al suo dovere: una promessa pretesa sul letto di morte da un genitore, c’è qualcosa di più vincolante? Ma il figlio lo sa da tempo, che avrebbe dovuto (voluto) farlo. L’occasione scatta con la commissione di un articolo per il sito Runners di “Repubblica”, due mesi dopo la scomparsa del padre. Ed ecco oggi il libro.
Non certo un’agiografia, non certo l’accorata elegia in morte. Questa è “la versione di Angelo”, portata avanti con sguardo lucido, umile, sofferente, ma profondamente umano e per fortuna mai retorico: c’è tutto quello che gli altri non vedevano, tutto quello che nessuno poteva sapere fuori dalla famiglia. Ovvero la durezza di un padre che con quel figlio non si è mai preso, la sua incapacità di essere amorevole, mai una carezza, mai un contatto fisico, proprio come aveva subito lui da piccolo (lui e tanti bambini vissuti fra le due guerre). Solo il calcio e la fede per l’Inter erano un punto di contatto, che si esauriva nei 90 minuti di una partita vista in tv, a tifare insieme, insieme almeno per un momento.
Il Mario Ferracuti di cui si legge qua è tratteggiato in tutta la sua grandezza atletica, in vita un po’ disdegnata da Angelo (e quello i figli un po’ lo fanno, i genitori lo sanno e lo sanno anche accettare), ma anche in tutta la sua freddezza genitoriale, sebbene compensata dall’amorevolezza della madre. È il “supereroe”, ma è anche l’“orfano indomito”, il generatore delle insicurezze del figlio, ansie così terribili da diventare fonte di psicosi: a 15 anni pensavo di morire almeno 3 volte a settimane, a 20 gli istinti di morte erano quotidiani, le pagine riecheggiano di frasi come queste. Durante una gita sul Monte Sibilla, narra nel libro, aveva dovuto rinunciare: “Giunti alla corona, la piccola cresta di terra strettissima sospesa tra la valle dell’Infernaccio e il lago di Pilato, sul monte Vettore, arrivarono a stordirmi le vertigini”. E nemmeno a 1500 metri, rinunciò, mentre il padre attonito non poteva capacitarsi di quelle sue debolezze. Prendere un aereo era un’esperienza che i nervi non reggevano. E la morte della moglie Patrizia a 42 anni non ha aiutato (la drammatica storia è raccontato ne La metà del cielo).
Eppure, Angelo Ferracuti ha realizzato numerosi reportage, dall’Italia terremotata come dall’Amazzonia, e tuttora viaggia in tutto il mondo, spesso sulle tracce di Jack London, il primo amore letterario, a cui a Torre di Palme, frazione di Fermo, ha intitolato la scuola per reporter aperta con il fotografo Giovanni Marrozzini. Il percorso di formazione prevede anche molte escursioni verso i vicini Monti Sibillini, che sempre hanno fatto parte del panorama e di tante gite dello scrittore.
Il suo sguardo è attento soprattutto a temi come lo sfruttamento del lavoro e l’impoverimento sociale che ne consegue, a cui si era appassionato fin dagli anni ’70, quando disertava i banchi di scuola per manifestare in piazza con la sinistra extra parlamentare. La voglia di ribellione emersa in gioventù era più forte del senso di appartenenza a una terra: “Solo il caso mi aveva fatto nascere in quella piccola città, quel caso che poi però era diventato destino, il cappio che mi incatenava e che chiamavano radici”. E il libro è un excursus su tutta la storia italiana dagli anni ’70 e fino a oggi, alla guerra fra Russia e Ucraina. La mera storia di un atleta, per quanto formidabile, non poteva bastare da sola a fare un libro, perlomeno non il suo libro.
La strada blu
C’è un itinerario che si snoda per mille chilometri dalla Norvegia alla Russia. Parte a nord dalla città di Mo I Rana, vicino al Circolo Polare Artico, e tra laghi e fiumi scende giù fino a Pudož nella Repubblica di Carelia, attraversando anche Svezia e Finlandia. Pare che si chiami così per via del Fiume Blu che la costeggia per buona parte, seguendo l’antico percorso dall’Atlantico al lago Onega.
Padre e figlio l’avevano scoperta per caso in una rivista mai più ritrovata, nemmeno svuotando la casa dei genitori per farne un centro di accoglienza per migranti.
L’idea era che Mario l’avrebbe corsa e Angelo ne avrebbe scritto: un tentativo di riunirsi. Ma quel progetto non si realizzò mai, restando “la nostra più clamorosa incompiuta”: l’occasione mancata di conoscersi, probabilmente l’unica. Però Angelo l’ha fatta lo stesso, arrivando al confine tra Finlandia e Russia a guerra in corso, immaginandosi tuttavia come sarebbe andata con suo padre: i rimproveri, le idiosincrasie, i borbottii, le smanie. Arrivando perfino a vederselo davvero correre sulle strade morbide che percorreva in solitaria, affiancato da foreste verdissime. E forse così lo ha conosciuto davvero, per la prima volta. “Pensai che solo la letteratura potesse fare accadere le cose impossibili, quello è il suo miracolo. E i sogni”.
Zemeckis, dalle Marche con amore
Non possiamo non chiudere con una curiosità: Groom non sapeva delle imprese di Mario Ferracuti, non sapeva probabilmente nemmeno dell’esistenza delle Marche. E a meno che Robert Zemeckis non glielo abbia confidato, non sapeva che il noto regista era proprio di origini marchigiane. Se ne è parlato quando nel 2009 “Roberto” è personalmente volato nel Piceno per fare ricerche. Pare che la sua famiglia venga precisamente da Offida, nella Vallata del Tronto. In quell’occasione si è fermato a visionare un documentario dal titolo La Terra e la Memoria, capace di unire il taglio narrativo più cinematografico all’accuratezza della ricerca, promosso dall’associazione culturale ErmoColle, per la regia di Angelo Cerasa. Che si è dunque ritrovato fra il pubblico non solo il disegnatore Tullio Pericoli e l’attore Giobbe Covatta, entrambi originari di Colli del Tronto, ma anche il “collega” premio Oscar per la regia di Forrest Gump, nell’empireo per – fra l’altro – la trilogia culto di Ritorno al Futuro. Forse qualcosa di quell’esperienza, il senso dell’evoluzione della terra e di chi la abita, ha spinto Zemeckis a lanciarsi nell’adattamento cinematografico della graphic novel di Richard McGuire che dal prossimo gennaio 2025 sarà nelle sale col titolo Here. “Qui”: ovvero nell’unica stanza in cui il film si svolge, là dove un tempo c’erano i dinosauri, oggi salotto di una grande casa dove l’amore diventa famiglia, figli, nipoti. E vecchiaia. Un inno all’indissolubile legame fra la terra e gli esseri viventi che la abitano, in ogni era.
Robert Zemeckis.