Everest

Il 29 maggio 1953 Hillary e Tenzing toccano per la prima volta la vetta dell'Everest.
Tramonto sull'Everest © Wikimedia Commons

Per i tibetani è il Chomolungma, la “madre dell’universo”, e i nepalesi lo chiamano Sagarmatha. Everest è un’invenzione europea, in onore di un geografo britannico. Quando il grande Edmund Hillary torna dalla cima nel lontano 1953 è convinto che sia la fine – “Io e Tenzing pensavamo che nessuno ci avrebbe riprovato” –, ma si sbaglia perché è solo l’inizio. La cima raggiunta il 29 maggio da 350 portatori, 20 sherpa e uno squadrone di alpinisti britannici è la fanciulla appena sfiorata dai desideri, ancora candida come la neve.

Lo stesso vale per la profezia di Buzzati, che quando Hillary e Tenzing scalano l’Everest si chiede con romantico disincanto: Guardatela, ora, la superba montagna, la solenne cattedrale che fino al 29 maggio poteva essere creduta un miraggio, una parvenza, un mito. Non è forse più piccola di ieri? Non è in un certo senso meno bella?”. Buzzati ha visto giusto, eppure non immagina che in pochi decenni il sogno si trasformerà in prodotto di mercato e i discendenti di Tenzing Norgay, lo sherpa capace di salire con sir Edmund Percival Hillary, diverranno guide al servizio delle spedizioni commerciali e rischieranno quotidianamente la vita per preparare i campi e fissare le corde dei ricchi occidentali innamorati di un primato.

Era già successo sulle Alpi ma sembrava impossibile che si ripetesse a ottomila metri, perché ottomila era cifra estrema e irraggiungibile, tanto che Filippo De Filippi, cronista della spedizione del Duca degli Abruzzi, scriveva nel 1909: “Questi son monti ai quali non si può guardare senza turbamento, sembrano racchiudere misteri paurosi”. Era terra inesplorata e ogni comunità alpinistica coltivava il suo incubo e il suo sogno. Dopo l’esplorazione del Duca l’Italia era legata a filo doppio al K2; dopo la scomparsa di Mallory e Irvine sulla cresta dell’Everest la Gran Bretagna voleva la cima più alta; dopo la morte di Welzenbach e Merkl la Germania cercava la rivincita sul Nanga Parbat. Ogni paese uscito dalla Seconda guerra mondiale progettava di issare la bandiera della patria su un gigante dell’Asia, perché i quattordici ottomila offrivano il sigillo della supremazia ai vincitori e una possibilità di riscatto ai vinti.

Rompendo gli indugi, nel 1950 i francesi vanno all’assalto dell’Annapurna, la dea dell’Abbondanza. I rischi dell’ascensione sono altissimi, e anche se le cordate si affidano a Lionel Terray, Louis Lachenal e Gaston Rébuffat, tra i migliori alpinisti e guide del dopoguerra, la salita si rivela bestiale, quasi un suicidio. Il prezzo è alto: Herzog e Lachenal, in vetta il 3 giugno, scendono esausti e gravemente congelati. Il 1953 è l’anno dell’Everest. Ragioni politiche impediscono di ritentare la via nord di Odell e Mallory, dunque si va dal Nepal. La fierezza britannica e una magnifica macchina organizzativa sorreggono la spedizione di John Hunt, colonnello dell’esercito di sua Maestà. Un occhio poco allenato potrebbe anche confondere i primi salitori dell’Everest con i colorati pretendenti di oggi, perché nel 1953 i tessuti di nylon avevano già trasformato gli uomini degli ottomila in astronauti dai corpi gonfi nelle tute imbottite, con la barba e gli occhi nascosti dietro le maschere per l’ossigeno, ma era solo una mezza illusione di sicurezza e “modernità”. In realtà quegli uomini erano a metà strada tra il passato e il futuro, un po’ pionieri attrezzati solo di fede e coraggio, un po’ portatori delle nuove tecnologie del dopoguerra consumista e sciovinista. Fragili messaggeri travestiti da cosmonauti. Prima di tutto per il vestito, un velo di nylon buono a riparare dal vento, ma anche a trattenere il sudore come una camera stagna e a trasformarsi in corazza con i morsi del gelo. Sotto l’involucro mutandoni, camicia e strati e strati di lana, un viluppo equivalente a un leggero e traspirante capo tecnico di oggi, in pile o derivati. Gli scarponi di cuoio, protetti da ghettoni e sovrascarpe, potevano diventare duri come le dita dei piedi e non riscaldarsi più, nemmeno nella tenda di tela spessa e nel sacco letto imbottito di piume. Gli alpinisti non portavano imbracatura, si legavano in vita con corde dure come baccalà e usavano lunghe piccozze dal manico di legno. Avevano sperimentato l’uso delle bombole, anche se il peso era tanto e gli erogatori gelavano. Gli himalaisti respiravano la vita dalle bombole a ossigeno.