© Andrea GreciParlo di “Economia della Montagna” e insieme di “Economie delle comunità montanare” per sottolineare due punti fondamentali: la necessità di un approccio plurale, che apprezza le differenze e le diversità per rendere sostenibili traiettorie di sviluppo che poche chance avrebbero di contrastare le disuguaglianze con la uniformità di modelli stereotipi. Insieme l’urgenza di affiancare nel discorso economico la considerazione sul ruolo delle istituzioni e delle politiche a quelle sul funzionamento dei mercati. Per questo non mi posso trattenere dal tentare qualche incursione in altri campi che segnano le dimensioni della sostenibilità: quella ambientale, quella sociale, oltre a quella economica.
Ad esempio, sul termine di Capitale Naturale, che fa da perno alla riflessione sulla sostenibilità ambientale e in particolare quella sulla conservazione della biodiversità e sulla generazione di servizi eco-sistemici. Capitale naturale è un calco lessicale ripreso dal linguaggio economico e che, in quanto tale, potrebbe solo per questo raccogliere obiezioni e critiche, come tante volte, mi è capitato parlando di Capitale Umano nel contesto umanistico di riflessioni sul processo educativo; riflessioni centrali a mio avviso per l’economia e ancor di più per l’economia delle Montagne. Con questo spirito trasgressivo voglio proporre quattro parole come snodi della mia comunicazione agli “alpinisti” italiani del XXI secolo sulla Economia delle Montagne, le sue criticità e le sue prospettive.
La prima è CENTRALITÀ che prendo a prestito dal Convegno di Camaldoli del Novembre 2019, poche settimane prima della pandemia, nel quale Beppe Dematteis, decano dei Geografi Italiani e Alberto Magnaghi, principe dei Territorialisti avevano chiamato qualche centinaio di Società Scientifiche e Associazioni culturali italiane a sottoscrivere un Manifesto per una “Nuova centralità della Montagna”. Una nuova centralità che il Cambiamento Climatico rende evidente; tanto sul fronte delle minacce – lo scioglimento dei ghiacciai è la più evidente - quanto sul fronte delle opportunità - l’innalzamento dei limiti fito-climatici riporterà colture come quelle viticole a più alte quote. Dobbiamo spiegarci però i ritardi e le difficoltà con le quali sta prendendo piede la nostra capacità di rispondere al cambiamento climatico, dopo che quelle a comprenderlo sembrano davvero finalmente svanite. Si chiamano in causa gli, interessi, le loro miopie e i loro egoismi. Io non ne sono convinto, per lo meno del tutto. Mi vengono in mente le parole di un grande economiste, John Maynard Keynes che, nel concludere le pagine della sua Teoria Generale, una delle più grandi rivoluzioni culturali del Novecento, ricordava come “Gli uomini della pratica, i quali si credono affatto liberi da ogni influenza intellettuale, sono spesso gli schiavi di qualche filosofo defunto. Pazzi al potere […] Sono sicuro che il potere degli interessi costituiti è assai esagerato in confronto con l’affermazione progressiva delle idee”. In modo ancora più diretto, mi sovvengono le parole di un poeta islandese contemporaneo, che ricorderemo per aver scritto e poi postato, l’epitaffio che ricorda la scomparsa del Okjokull, il primo ghiacciaio islandese vittima del riscaldamento globale. Andri Snaer Magnason, alla domanda sul perché alla nostra consapevolezza sul dramma del riscaldamento climatico non consegua una azione corrispondente, dice che questo accade “perché non abbiamo ancora le parole per farlo”. Dobbiamo trovare queste parole, il discorso economico ne ha bisogno non meno di quello politico e civile se vogliamo avere speranza di gestire la complessità. L’attenzione alla geografia, l’immaginazione geografica, rappresentano una fonte possibile di un certo interesse se, per dirla con Beppe Dematteis, in un tempo in cui non ci sono più terre sconosciute da esplorare, la geografia serve non poco ad esplorare le nuove condizioni a cui le terre (e i mari) sono esposte dal cambiamento climatico.
© AsvisLa seconda parola è STRATEGIA. È una parola che risuona frequentemente, richiamando per esempio le novità e il portato innovativo di operazioni come quella della Strategia Nazionale per le Aree Interne, un poco offuscata dalle sue difficoltà applicative, o come quella, più recente, delle Green Community, che hanno avuto il merito di inserire la sostenibilità come terzo pilastro dello sviluppo locale. Poi di Strategia della Montagna, che appare nelle indicazioni della nuova legge che è da poco approdata in Parlamento. Bene, di approcci strategici abbiamo sicuramente bisogno ma certo non abbiamo bisogno di agitare i vessilli di formazioni contrapposte, ciascuna con la bandiera della propria strategia. Anzi, se di una cosa abbiamo bisogno, è quella di trasformare occasioni stra-ordinarie e sperimentali in una azione ordinaria e sistematica, in una politica, appunto.
La terza parola è COMUNITÀ; parola che rischia di essere inflazionata dall’uso almeno tanto quanto rischia di essere fragile nei riferimenti empirici. Ci troviamo di fronte alla pressante esigenza – nelle Montagne assai più che altrove – di ridefinire i termini geografici delle comunità: da quelli segnati dall’ombra dei campanili, rassicuranti ma con tutta evidenza privi di efficacia, a quelli di coalizioni territoriali più estese ma che per questo rischiano di essere meno coese. Alla comunità dobbiamo guardare, non per rimpiangerne la scomparsa e averne nostalgia, ma per progettarne di nuove. Comunità “nomadi” intanto; comunità di abitanti anche di diversa provenienza ma con un forte riconoscimento di se nei luoghi, nel valore e nella bellezza dei luoghi, che con tutte le difficoltà di una regola di convivenza che non è tramandata “geneticamente” dalla tradizione - condividono l’impegno ad abitare i luoghi facendone il riferimento del proprio progetto di vita, pure non esclusivo, nello spazio e nel tempo; comunità di elezione e non solo di tradizione. Comunità “sinodali” capaci di tenere assieme vertici decisionali – come nel loro piccolo, talvolta piccolissimo, sono i Sindaci - sui quali si scaricano pressioni formidabili e sollecitazioni particolaristiche che “naturalmente” porterebbero ad isolarli e a dividerli. Comunità sinodali che, proprio nel “camminare insieme”, nel condividere una direzione e una meta, possono trovare quelle ragioni per agire concordemente che non sono loro assicurate da una provenienza comune.
L’ultima parola, la quarta, richiama la prospettiva METROMONTANA, il rapporto tra la Montagna e la Città che tanta eco raccoglie nel dibattito. Anche questo un tema innanzitutto culturale ma del quale i risvolti economici sono evidenti. Possiamo dare per definitivamente conclusa la stagione fordista (ma definitiva è soltanto la morte, ci ammonisce una saggezza antica, e con qualche episodio ci dovremo confrontare ancora); una stagione di crescita urbano-industriale nella quale si è esercitato, nel corso della seconda metà del XX secolo - un rapporto “estrattivo” con il quale le economie urbane e industriali hanno sottratto “Capitale Naturale” e Capitale Umano” dalle aree montane. Se questa stagione è tramontata assieme alle sue cattedrali costruite nello spazio alpino delle stazioni invernali dello sci, a quale nuovo riferimento culturale potrà attingere la nostra immaginazione sociologica per progettare una metro-montanità evoluta e desiderabile? Non credo a quello della tradizione romantica che ha di poco preceduto (e per tanti versi preparato) la modernità.
ùQualche anno fa, ad un convegno in memoria di Michele Gortani, geologo emerito, alpinista, padre costituente ho sentito l’onorevole Gerardo Bianco, degnissima persona e figura politica specchiata, che da poco ci ha lasciato, richiamare l’espressione di Hegel di fronte alla maestosità della Montagna: “So Ist! È così!” Incuriosendomi abbastanza da convincermi a frugare tra gli scritti e a cercare una contestualizzazione di quella affermazione e di quell’interesse in una delle figure più alte della cultura europea. Per scoprire, deluso una valenza assai meno nobile della affermazione hegeliana: “La vista di quei massi eternamente morti a me non ha offerto altro che la monotona rappresentazione, alla lunga noiosa, del è così”. La ricerca ha avuto pero un dono inatteso: la potenza dei versi con il quali il maggior filosofo dei suoi tempi si rivolge all’amico poeta Holderlin, la più grande voce della poesia tedesca di ogni stagione, con giovanile freschezza: “Attorno a me, in me, abita la pace. Degli uomini indaffarati dormon le cure incessanti, lasciandomi libertà e ozio". Verso che rende con limpida chiarezza l’appagamento estatico che si esprime nella voce degli intellettuali ma è sostenuto dal lavoro incessante dei montanari. Ora come allora questo non può essere il riferimento di una fruizione della montagna che cerca l’ozio e il divertimento incurante del lavoro che è necessario per produrre, sostenere, mantenere quel paesaggio che è la fonte del diletto. Esattamente qui, a questo snodo del rapporto metro-montano, si pone il tema dei servizi eco-sistemici e, soprattutto, quello dei loro pagamenti. Le tecniche della economia (del benessere) ci forniscono gli strumenti per quantificare il valore di questi servizi. Per l’Italia, a partire dai pionieristici lavori di Riccardo Santolini, siamo arrivati nel 2016 a stimarlo in oltre 90 miliardi di euro all’anno, 2/3 dei quali prodotti nelle Montagne Italiane. 90 Miliardi che sono poco più del 5% del PIL (si consideri che il valore aggiunto delle attività turistiche, stimato con le tecniche più raffinate del conto satellite è valutato nel 6% del PIL); valore che per le realtà montane, dove la produzione di servizi ecosistemici è particolarmente concentrata e quella del PIL è decisamente inferiore, sale sino a rappresentare un potenziale del 15%.
Concludo con una immagine che è una allegoria ripresa da quella Allegoria e effetti del buono e del cattivo Governo che la mano di Ambrogio Lorenzetti ha dipinto nelle sale del Palazzo Pubblico di Siena nella prima metà del XIV secolo. Opera che è il fondamento del discorso pubblico nella tradizione politica italiana. L’immagine descrive un gruppo di giovani donne che danzano in cerchio: un girotondo che sarà ripreso e portato alla espressione del sublime dalla raffigurazione delle Tre Grazie che ne darà Botticelli nella Primavera dipinta poco più di un secolo dopo. L’ho usata anche, per concludere una conversazione recente sul tema delle Green Community dopo la quale mi è venuto da interrogare un caro amico, trasferito dopo la Brexit da Londra all’Appennino reggiano con la sua famiglia cosmopolita e con il suo progetto di economia circolare, chiedendogli perché avesse voluto chiamare questo suo progetto “Girotondo base camp”. Mi ha risposto che il suo intento era proprio quello di avvicinare etica ed estetica, considerando quanto erano brutti gli esempi che aveva incontrato sul suo cammino. Ma ha poi aggiunto: “hai presente come suona il ritornello: Giro, giro tondo,
Casca il mondo. Casca la terra: Tutti giù per terra". A ricordarci con le parole delle fiabe (sempre terrificanti), il dramma della nostra condizione e l’invito a radicare nella terra la nostra risposta.
© Davide Berton