La parete nord dell'Eiger © Wikimedia CommonsNegli anni Trenta del 900 gli obiettivi sono puntati sulla parete nord dell’Eiger, che ha fama di morte. Il 22 luglio 1936 si tocca l’apice del dramma quando i soccorritori svizzeri escono dalla galleria del treno a cercare quattro dispersi e l’unico sopravvissuto muore sotto i loro occhi. Gli sventurati protagonisti sono gli austriaci Edi Rainer e Willy Angerer e i tedeschi Toni Kurz e Andreas Hinterstoisser, che si incontrano per caso sui prati del campo base e sono destinati ad arrampicare insieme. In quattro non fanno cent’anni, ma hanno esperienza e coraggio da vendere. Le due cordate si mettono in moto il 18 luglio alle due del mattino. Il cielo al momento è sereno. Il geniale Hinterstoisser, specializzato nelle traversate a corda, sale molto in alto sotto gli strapiombi, pianta un solido chiodo, fissa la corda al moschettone, si appende e con un pendolo traghetta se stesso e i compagni sulla zona ghiacciata al centro della parete. I quattro alpinisti si sentono sicuri delle proprie forze e sfilano la corda, precludendosi la via del ritorno.
Poi comincia a girare storto. «Gli spettatori – scrive lo storico Rainer Rettner – videro che Angerer veniva sostenuto sotto le spalle da Rainer. Evidentemente era stato colpito da un sasso. Poco dopo notarono che da sotto il berretto spuntava una fasciatura. I tedeschi calarono una corda e insieme aiutarono Angerer, visibilmente provato, a salire verso il bivacco». La mattina del 19 luglio gli spettatori fanno appena in tempo a scorgere i quattro che riprendono la salita, poi cala la nebbia. Sipario abbassato fino a sera, non resta che immaginare. La mattina del 20 offre una schiarita passeggera e allora si puntano immediatamente i cannocchiali in alto, qualcuno sulla vetta addirittura, ma l’entusiasmo è frustrato dalla realtà: sono ancora lì dove morirono Sedlmayr e Mehringer, più o meno in cima al secondo nevaio. Devono tornare indietro. Legati in un’unica cordata cominciano le calate, mentre i cronisti dell’Echo von Grindelwald preparano l’edizione dell’indomani: «Fallito l’attacco alla parete nord dell’Eiger. I quattro alpinisti arriveranno alla Kleine Scheidegg verso sera, salvo complicazioni». Ma nevica e fa freddo, e la nebbia nasconde di nuovo la scena.
La mattina del 21 luglio il controllore della ferrovia Albert von Allmen si affaccia in parete e prova a chiamare. I ragazzi lo sentono e rispondono che stanno bene e contano di scendere in fretta. Von Allmen urla di non fare tardi, che sta già preparando il tè. Passano altre ore e non comparve nessuno. Alle quindici von Allmen, per la terza volta nella giornata, esce a parlare con i dispersi e questa volta gli ritornano le grida disperate di Toni Kurz, l’unico vivo. Hinterstoisser è precipitato dopo avere cercato di superare in senso inverso la traversata che da allora porta il suo nome. Angerer è rimasto strangolato dalla corda e Rainer è congelato. Non potendo tornare sui loro passi hanno tentato di calarsi direttamente verso la galleria, ma gli strapiombi e la bufera sono stati fatali.
Kurz non ha più chiodi e gli resta solo un pezzo di corda troppo corto per l’ultima calata. Un braccio è già rigido per il freddo, eppure la tempra e la voglia di vivere gli permettono di sopravvivere alla tormenta e alla disperazione anche nella quarta notte che trascorre solo, sotto il vento e la neve. L’operazione di soccorso riprende alle quattro e mezzo del 22 luglio. La tempesta ha tappezzato la parete di ghiaccio e soffia un vento polare. Eppure Kurz è ancora vivo e risponde alle domande. «Cala una corda!» gli urlano le guide, «Non ho corda» risponde. C’è solo una macabra via di uscita: tagliare il canapo al quale è legato il cadavere di Angerer, districarne i refoli con la mano sana, legarli insieme e calare ai soccorritori il cordino di fortuna, creando il cordone ombelicale con il mondo dei vivi. Toni riesce nell’impresa in quattro ore di paziente e disperato lavoro, ma il cordino sbatte e sventola fuori portata per le guide. Allora il giovane lo recupera faticosamente, ci attacca un moschettone di ferro, cala di nuovo e finalmente stabilisce il contatto. «Bravo ragazzo, adesso sei salvo!» Quando è ormai quasi a portata di mano delle guide, il nodo che unisce le due corde di calata si blocca nel moschettone. Ormai debolissimo, comincia a ondeggiare avanti e indietro scosso dal vento. Dalle punte dei ramponi scendono ghiaccioli di venti centimetri. Le dita paurosamente gonfie, immagine spaventosa. Kurz muore di sfinimento alle undici e trenta del 22 luglio, a pochi centimetri dai salvatori.