Angelo Dibona è stato una delle maggiori guide alpine di ogni tempo, la più grande secondo il compaesano Lino Lacedelli. Avesse lasciato un patrimonio di testimonianze scritte pari alle scalate sulla roccia e sul ghiaccio avremmo intere biblioteche da consultare, ma era un montanaro e usava la penna con parsimonia. Nato e cresciuto a Cortina d’Ampezzo sotto l’Impero asburgico, è stato prima umile pastore all’Alpe di Federa e poi guida impeccabile, accompagnatore di nobili e re, longevo e geniale scalatore su ogni tipo di terreno verticale, dalle crode dolomitiche alle lontane pareti del Monte Bianco e degli Écrins. Ha concentrato la sua vita straordinaria negli scarni appunti redatti nel 1930 su richiesta di un cliente. Riguardo all’anno più importante, Dibona scrive laconicamente che “fu effettuato un grande programma, messo insieme dai fratelli Mayer. Fu fatta una ricognizione della parete nord della Cima Una. Un bel mattino alle 4 eravamo ai piedi della parete che ci fece masticare parecchie dure noci. Alle 10 di sera in vetta, accolti da una pioggia torrenziale… Si andò poi nel Brenta: salimmo la perpendicolare parete del Croz dell’Altissimo fino alle 2 del pomeriggio, ma la via non era la giusta e fu suonata la ritirata. Ciò che è rimandato non è rinunciato. Il giorno seguente fu effettuata la salita in dodici ore di arrampicata. Le difficoltà furono molto grandi…”. Il fantastico duo suonato con i fratelli viennesi Guido e Max Mayer nell’estate del 1910, in mezzo a molte altre scalate difficili e sempre in compagnia della guida fassana Luigi Rizzi, basterebbe a coronare la carriera di uno scalatore, invece gli anni successivi certificano la maestria sul terreno misto – ghiaccio e roccia – delle Alpi occidentali, con vie estreme sulla parete sud della Meije (dove era precipitato Emil Zsigmondy), sulla parete nord del Dôme de Neige des Ecrins e sulla Dent du Requin dal versante della Mer de Glace. Gli storici attribuiscono alla parete nord della Cima Una (Dolomiti di Sesto) una gradazione certa di quinto grado superiore, forse sottostimato, e mai nessuno potrà ormai giungere a un giudizio definitivo perché nel frattempo la parete è stata sconvolta dalle frane. Ma il vero dilemma riguarda la parete del Croz dell’Altissimo nelle Dolomiti di Brenta, un percorso tortuoso tra cenge, muri e gole scavate dall’acqua. Il Croz svetta sopra la selvaggia Valle delle Seghe, materializzandosi in una barriera tagliata da un diedro enorme, aperto come un libro di pietra. Oggi la relazione tecnica della scalata parla di una “via molto alpinistica da non sottovalutare, poco chiodata, a tratti da cercare, su roccia mediocre, con qualche tratto pericoloso e poco proteggibile. È comunque una grande via che non finisce mai, assai notevole impresa di Dibona e compagni. Forse il VI grado era stato superato ben prima della via Solleder al Civetta, e con pochi chiodi!” All’epoca si scalava con una corda di canapa annodata in vita, maniche di camicia, zaino di tela e la certezza che nessun soccorso era possibile, e nemmeno immaginabile. Si era totalmente soli sulla montagna.
Croz dell'Altissimo, dove Dibona disegnò forse la sua via più visionaria © Wikimedia Commons