De Marchi sul Gran Sasso

Gran Sasso Corno Grande
Il Corno Grande del Gran Sasso dai Prati di Tivo © Gennaro Pirocchi

Negli ultimi secoli del Medioevo si realizzano le tre ascensioni che ufficialmente definiscono la preistoria dell’alpinismo: Mont Ventoux, Rocciamelone e Mont Aiguille. Mancano centinaia di anni per arrivare al secolo in cui gli storici collocano la nascita dell’alpinismo vero e proprio: il Settecento. È chiaro che le tre salite, peraltro diversissime, non rappresentino l’inizio di un nuovo fenomeno sociale, nemmeno di un generico interesse della città nei confronti della montagna. Sono tre episodi isolati che non trovano l’humus necessario per attecchire e crescere. Ed è altrettanto evidente che esistono molte salite “non ufficiali” delle cime, ad opera di valligiani e cacciatori, e anche di cartografi e militari, che in parte riempirebbero questo vuoto se fossero state documentate. Ma non ne sappiamo niente.

Il salto temporale può essere parzialmente ridotto, sempre per un evento casuale e privo di conseguenze storiche, se si tiene conto di un’impresa trascurata dalla maggior parte dei libri di alpinismo perché non è avvenuta sulle Alpi, ma nei negletti Appennini. Nel 1573 il capitano bolognese Francesco De Marchi, eclettico uomo d’armi e di scienza, fiduciario dei Medici e dei Farnese, interlocutore di Raffaello e Michelangelo, spericolato cavaliere e architetto militare, sale il Corno Grande del Gran Sasso alla bella età di sessantanove anni e ne documenta l’ascensione: “Hora descriverò et dissegnerò un Monte che è detto Corno…”. La scalata non si rivela difficile, ma la cima è decisamente prestigiosa.

Una sedicente guida locale – tale Francesco Di Domenico, “chacciatore di camoccie” – accompagna De Marchi e compagni giurando di conoscere il cammino, ma poi le sue promesse di strade, sentieri e scale si rivelano perlopiù infondate e il capitano deduce che il montanaro l’abbia ingannato. Per fortuna il tempo è bello nonostante il gran freddo e così, raggiunte le rocce del Corno, “cominciassimo à rampiccarne con mani e piedi sù per le pietre, le quali son fragilissime per le nievi e i ghiacci che qui stanno tutto l’anno… L’huomo non si puol dare aiuto l’uno à l’altro perchè bissogna stare attaccato alla pietra con le mani”, per non fare la fine di quel povero frate che tentò la scalata l’anno precedente e “cascò et andò in pezzi”.

Pur non conoscendo con esattezza il percorso esatto seguito dalla comitiva dei pionieri, – che comunque presenta difficoltà escursionistiche o poco più – sappiamo con certezza dalla relazione del De Marchi che raggiunsero la vetta nel pomeriggio del 19 agosto 1573. Il capitano era convinto di essere sulla cima più alta d’Italia: “Hora noi arrivammo con grandissima fattica e ci ponemmo cinq’hore e un quarto a montare su’l detto Monte con tutta la solicitudine che noi pottessimo fare. Quand’io fui sopra la sommità, mirand’all’intorno, pareva che io fussi in aria, perchè tutti gli altissimi Monti che gli sono appresso erano molto più bassi di questo. Così pigliai un Corno e cominciai à sonare…” 

Il capitano De Marchi muore tre anni dopo e non lascia eredità alpinistiche. Per trovare un altro significativo e certificato episodio di alpinismo, che finalmente si legherà a quelli successivi costituendo il primo anello della catena storica, restano ancora due lunghi secoli da colmare: dal 1573 al 1778, l’anno della prima salita del Colle del Lys da parte dei cacciatori di Gressoney. Sono circa duecento anni che simbolicamente ne incorporano mille, o centomila, quell’indeterminabile lasso di tempo in cui l’uomo cacciatore e allevatore frequenta le montagne, prima sporadicamente, poi stabilmente, senza avvertire un particolare bisogno di scalarle perché sulle cime non cresce nulla, salvo la paura e la vertigine.