Durante la solitaria al Pizzo Badile © D. EynardDario Eynard è in un periodo decisamente attivo della propria vita professionale: ha appena guadagnato la "spilla" di aspirante guida alpina di primo livello, a gennaio inizierà a esercitare e a febbraio sarà in Patagonia per la spedizione con il CAI Eagle Team. Al suo ritorno, a marzo, sarà proclamato ingegnere per l'ambiente e il territorio. "Ho fatto le selezioni come aspirante guida alpina a inizio 2023, è stato un anno intenso e poi si sono sommate varie altre cose, tra le quali anche l'ingresso nel CAI Eagle Team. E poi, quando tornerò dalla Patagonia, ho già programmi fino all'estate, quando andremo in Canada con David Bacci, Giacomo Meliffi ed Enrico Bittelli. Perché il tempo libero è poco…ma appena c'è, l'idea è di impiegarlo per scalare".
Come ti sei preparato per la Patagonia?
La prendo larga, nel senso che per una cosa del genere ci si prepara per anni, ci vuole tanta esperienza. Detto questo, tutto il progetto dà una bella preparazione in termini di continuità: vie impegnative, tanti giorni insieme e un bel gruppo al lavoro. Il clima tra di noi è sempre stato fantastico e ci siamo visti molto anche al di fuori delle settimane dell'Eagle Team. Io ho cercato di curare tanto la parte aerobica e ho scalato quattro volte a settimana. E poi questa estate siamo stati tanto sul Monte Bianco: abbiamo fatto un po' di vie come la Mares all'Aiguille de la Brenva, Maudit Blues al Mont Maudit. Siamo andati anche in Valle dell'Orco e a Cadarese, a provare un po' di incastri in fessura.
Sul Ben Nevis, in Scozia © D. EynardA Cadarese avete incontrato anche giovani alpinisti internazionali, legati a progetti analoghi.
Esatto. C'erano austriaci, svizzeri, tedeschi, francesi. Loro hanno progetti come il nostro che vanno avanti da anni, è un bene che anche da noi si sia fatto qualcosa del genere. Per noi allargare gli orizzonti a collaborazioni con loro è bello, ci arricchisce sia dal punto di vista umano che di tecnica.
Non è più l'alpinismo "nazionalistico" di una volta.
No, non c'entra niente, anche perché noi abbiamo avuto Matteo [Della Bordella, ndr] che ha dato un'impronta molto aperta. Non c'è un capo che dice dove andare e con chi scalare. Il gruppo è molto aperto alle sensibilità di tutti: ci si sceglie il compagno di cordata con cui ci si trova meglio e si decide dove andare sentendo il parere di tutti. I tutor sono dei compagni di scalata, ovviamente con tanta esperienza e grandi capacità. Credo che questa cosa sia molto positiva e in futuro spero che l'esperienza dell'Eagle Team venga replicata, sarebbe davvero importante che altri ragazzi avessero le nostre stesse possibilità.
Quali sono i tuoi sogni patagonici?
Il Cerro Torre sicuramente ha un fascino incredibile ed è impossibile non sognarlo, ma non è questo l'obiettivo della spedizione, non fa parte di quanto abbiamo messo tra i nostri obiettivi.
Durante la traversata del Sarek © D. EynardCosa vuol dire arrampicare nell'epoca del cambiamento climatico?
Arrampicare nell'epoca del cambiamento climatico è una questione quasi "spinosa", mi verrebbe da dire. Perché l'alpinismo richiede di spostarsi sul territorio e a volte mi sento ipocrita a parlarne mentre vado dall'altra parte del mondo. Alla fine sono arrivato all'idea che ognuno deve trovare la propria via e nel mio caso penso che la vita è una questione di compromessi. Per il Sarek, per esempio, quando con Giacomo siamo andati a fare la traversata in Lapponia, avevamo la possibilità di fare un viaggio con meno impatto o più impatto. Alla fine, prendere il treno non aggravava troppo sull'esperienza. Non era come andare dall'altra parte del mondo in barca a vela e invece è stato qualcosa in più che ha arricchito il nostro viaggio. In altri contesti non è possibile una soluzione di questo tipo, ma io cerco di fare sempre un'analisi costi/benefici, che metta in conto al suo interno anche il mio benessere, il mio divertimento.
Senti che avere visibilità ti metta nella condizione di potere fare qualcosa di più rispetto agli altri?
Penso che effettivamente abbiamo un po' più di visibilità. Così, alcune esperienze che ho fatto per me stesso, ho poi deciso di condividerle. Per trasmettere anche il mio modo di andare in montagna, nel quale credo a livello personale. Parlandone spero di riuscire a fare un po' riflettere, altrimenti non investirei nella comunicazione, non per scopi meramente personali. Credo che l'alpinismo che sto facendo sia un po' scomparso o per lo meno parecchio ridotto. Mi piacerebbe ridare visibilità a un modo di andare in montagna che consideri anche un certo modo di arrampicare e gli approcci. Imprese alla Buhl quando è andato al Badile, alla Casarotto, riviste oggi sono modi per non puntare solo alla nuova via estrema, ma per vivere tutta l'esperienza in un certo modo. In fondo credo che l'alpinismo è l'arte di mettersi un po' nei guai e uscirne in qualche modo. Dentro questa cornice ci può stare un po' di tutto, anche nuove soluzioni nel ripensare le spedizioni.