Federico Secchi in cima al K2 © Federico SecchiPartito alla volta del Pakistan insieme a Marco Majori, con l’ambizioso progetto “Ski in the sky” Federico Secchi è, in questa stagione, uno dei pochi alpinisti ad aver raggiunto la vetta del K2, lo scorso 29 luglio. Partiti insieme da campo 4 Federico e Marco si sono presto separati, i due infatti procedevano a velocità diverse. Majori in particolare ha patito maggiormente la condizione della giornata, facendolo desistere dal proseguire verso la vetta una volta arrivato a circa 8500 metri. Iniziata per lui la discesa, Secchi ha continuato per la cima, che ha raggiunto intorno alle 16.30 locali, in totale solitudine. Majori e Secchi erano infatti le uniche persone presenti nella parte alta della montagna.
Classe 1992, guida alpina e maestro di sci, Federico Secchi è il promotore del progetto “Ski in the Sky” con cui si puntava a realizzare la salita e la discesa con gli sci dal K2. È infatti lui a parlarne con l’amico di sempre Marco Majori, guida alpina, maestro di sci e alpinista della sezione militare alta montagna del centro sportivo esercito, e poi a coinvolgere il Club Alpino Italiano legando il progetto al settantesimo anniversario dalla prima salita del K2.
Federico, quando e come hai immaginato di poter sciare il K2?
Tutto è nato a novembre dello scorso anno, quando ho incontrato il presidente Montani a Livigno. Sapevo dell’anniversario e volevo fare qualcosa sul K2, così ho proposto l’idea di scenderlo con gli sci.
Quindi non una “semplice” salita…
Nel 2021, con Marco (Majori, nda), eravamo stati al Manaslu con gli sci. Una bella esperienza: stavamo bene e avevamo capito che su quelle montagne con gli sci ci si muove bene, velocizzando la discesa.
Volevamo provare altre esperienze simili, alzando l’asticella. Così è nata l’idea del K2, anche se sapevamo che sarebbe stato molto più complesso.
Quali sono le maggiori complessità?
Il K2 non è come gli altri Ottomila, che hanno una forma più a panettone. Sulla seconda montagna della Terra devi trovare condizioni ideali, perché i versanti sono ripidi. Se trovi un anno in cui non nevica e c’è molto ghiaccio, è inutile provare, non riesci a sciarlo.
Puntavate a sciare la via Česen, come Bargiel?
Si, volevamo ripetere la sua linea. Ho passato settimane a guardare il video della sua discesa. Inizia con lui in cima, ripreso con il drone, poi stacca sulla action cam quando parte. A questo punto nel video viene inserita una grafica animata che mostra la linea scesa da Bargiel, mentre le riprese riprendono quando lui è già a campo 4. La nostra idea era quella di agganciare gli sci in vetta e filmare tutta la discesa, anche lungo il collo di bottiglia, sarebbe stata la prima volta in assoluto.
Marco Majori e Federico Secchi in salita sul K2 © Ettore ZorziniQuando hai raggiunto la vetta che condizioni hai trovato?
Bargiel aveva trovato delle condizioni più uniche che rare, con neve polverosa fin dal punto più alto. Io ho subito messo gli sci, incontrando neve crostosa e dura. Senza contare che sono arrivato in vetta abbastanza tardi, per un progetto come questo. Sono sceso fino a un tratto tecnico, dove ho deciso di togliere gli sci perché stava arrivando il buio. Oltre ho ancora sciato un tratto verso campo 4, ma non sono riuscito a sciare il collo di bottiglia. Se ci fossero stati altri alpinisti e anche più luce, magari avrei avuto il coraggio di osare maggiormente. Comunque avevo portato gli sci fino in cima, una faticaccia che speravo di ricompensare.
Da campo 4 avreste potuto intercettare la Česen, come mai non l’avete fatto?
Al mattino del 30 luglio io ero convinto di scendere per la Česen. Quando ci siamo svegliati la meteo era buona e, in teoria, avremmo avuto ancora un giorno di bel tempo. In realtà, dopo poco, il cielo ha iniziato a chiudersi ed è arrivato il brutto, così dopo una breve discussione abbiamo deciso di scendere per lo Sperone Abruzzi: non potevamo contare sulle indicazioni fornite dal drone, che non aveva visibilità, ma quantomeno la via era attrezzata con le corde fisse.
Fine del sogno di sciare sul K2?
In realtà anche sullo Sperone Abruzzi è possibile compiere qualche tratto con gli sci, in particolare tra campo 2 l’avanzato. Cosa che però non abbiamo potuto fare, dopo l’incidente di Marco.
Con Marco abbiamo già affrontato il tema, ma quali sono i tuoi ricordi del momento dell’incidente?
Scendendo, tra campo 4 e campo 3, c’è un traverso abbastanza facile, dove non sono presenti corde fisse. Un pendio enorme, dove si cammina bene, ma dove senza visibilità è facile prendere la linea sbagliata. Così abbiamo aspettato che si schiarisse, per riuscire a individuare il punto dove si trovava il campo e scendere. Io ero davanti, ho aspettato il momento giusto e poi sono andato.
Marco Majori © Ettore ZorziniPoi?
Dopo essere arrivato mi sono voltato alla ricerca di Marco. Lo vedevo, in mezzo al pendio, si era perso nella nebbia. Lo vedevo a tratti, ogni tanto spariva nelle nuvole. A un certo punto poi la visuale si è aperta completamente, ma lui non c’era più. Mi sono pietrificato: dal punto in cui ero sarebbe stato impossibile non vederlo. Ho subito pensato che fosse caduto in qualche crepaccio o che fosse scivolato.
A questo punto cosa hai fatto?
Ho chiamato via radio il campo base per chiedere a Ettore Zorzini, il nostro operatore drone, di fare un sopralluogo e cercare qualche traccia. Ma è servito a poco, perché non vedeva nessuno. Ho anche pensato di risalire e andare a cercarlo nell’ultimo punto in cui l’avevo visto, ma era fuori traccia e avrei impiegato tantissimo tento a battere tutta quella neve. Così ho iniziato ad aspettare e dopo circa 40 minuti è ricomparso. È arrivato da me sciando e subito dopo si è messo a nevicare.
Qui hai tirato un sospiro di sollievo?
È stato bello riabbracciare Marco, ma non era messo benissimo. L’ho subito sdraiato su un telo che ho trovato sul posto, per non farlo stare a contatto con la neve, e gli ho dato un antidolorifico. Le tende non c’erano più, così ho scavato una truna e ci ho infilato Marco dentro, proteggendolo con il telo di una vecchia tenda. Ho trovato del cibo e mi ci sono infilato anche io.
Marco era vigile?
Ogni tanto gli chiedevo come stava, gli facevo semplici domande. Quando ho notato che iniziava a darmi delle risposte strampalate ho subito pensato a un principio di edema cerebrale, così gli ho somministrato i farmaci che si utilizzano in questi casi. Nel frattempo ho avvisato il campo base e Agostino Da Polenza, che si è messo in contatto con Benjamin Vedrines. In quel momento si trovava ai campi bassi ed è subito salito da noi con una tenda e un fornelletto per fare acqua. Un’ora dopo è poi arrivato anche Sébastien Montaz-Rosset, con una bombola di ossigeno.
Così siete riusciti a passare la notte…
Si, abbiamo dato l’ossigeno a Marco e ogni due ore gli facevamo una puntura per tenere sotto controllo l’edema. Al mattino poi, verso le 5, abbiamo iniziato insieme la discesa. Benjamin e Sèbastien sono stati incredibili nel darmi una mano con Marco per facilitargli la discesa. Lui barcollava, gli faceva male la spalla ed era confuso. A ripensarci oggi è andata veramente bene, in tutti i sensi. Non oso immaginare come sarebbero potute andare le cose, se al posto di rompersi una spalla si fosse rotto una gamba.
Federico Secchi e Marco Majori controllano le condizioni sul K2 © Ettore ZorziniTutto è bene quel che finisce bene, ma non abbiamo ancora parlato della tua vetta… Com’è stato arrivare in cima al K2?
Ero da solo, non c’era nessun altro, bellissimo. Non penso che sarebbe stato ugualmente emozionante se mi fossi ritrovato in vetta con un’altra decina di persone. Ricordo che quando sono arrivato mi sono guardato intorno, era tutto vuoto. Solo io e il K2.
Questa è stata una stagione particolarmente complessa, a livello meteorologico, hai mai perso le speranze di arrivare in cima?
Si è stata una stagione complessa, ma non ho mai perso la speranza. Quando ci è stata comunicata la finestra sono partito con un obiettivo chiaro in testa e l’ho perseguito.
In generale cosa ti porti a casa da questa spedizione?
È stata una bella spedizione. Rispetto alle altre volte, in cui eravamo da soli o con poche persone, quest’anno il tempo al campo base passava in fretta. Si stava tutti insieme al campo, anche con le alpiniste, condividendo pareri, emozioni, ricordi, sogni.
A proposito di sogni, la via Česen?
Penso che sarei tornato, anche volentieri, ma ci sono troppe variabili a cui dover badare. Il rischio di organizzare una spedizione, per poi ritrovarsi impossibilitati a realizzare la discesa è alto. Se ci fossero maggiori speranze di successo, ci penserei.
Quindi ora spazio ad altri progetti?
Ho in mente di fare un giro in Patagonia, magari al Cerro Torre, ma per ora sono solo idee.