La crisi climatica e il futuro dei rifugi d’alta quota

Instabilità delle strutture e delle vie di accesso dovute all’assottigliamento del permafrost, scarsità d’acqua, caro energia. Per Luca Gibello, presidente dell’associazione Cantieri d’alta quota, le criticità attuali suggeriscono una sorta di decrescita per la gestione e frequentazione dei rifugi più alti. «Potremmo tornare a ricoveri più spartani, dove si consuma meno energia e dove non si pretendono comfort da hotel, con i fruitori che danno una mano al gestore per ridurre gli impatti»
«La maggiore criticità dovuta alla crisi climatica per i rifugi d’alta quota, oltre a quelle legate all’approvvigionamento idrico e al fabbisogno energetico, è quella relativa al cedimento del terreno sul quale è edificata la struttura, dovuta all’assottigliamento del permafrost (il terreno perennemente gelato presente alle altitudini più elevate, n.d.r.). Cedimenti di questo tipo sono sempre più diffusi». A parlare è Luca Gibello, storico e critico di architettura, direttore de Il giornale dell’Architettura e presidente dell’associazione Cantieri d’alta quota.

Le vie di accesso ai rifugi d’alta quota

Gibello spiega come non sono solo i problemi strutturali a interessare i rifugi più alti delle Alpi occidentali e centrali. I cedimenti del terreno e i conseguenti crolli si stanno verificando anche sulle vie di accesso.
«In certi posti ora è davvero pericoloso andare. Un esempio è l’accesso della Schreckhornhütte (2530 metri), nel Cantone di Berna, in Svizzera, dove sono stato due anni fa. Ci sono dei veri torrenti che attraversano perpendicolarmente il sentiero a mezza costa. Sono attivissimi: li puoi trovare in secca ma all’improvviso, quando piove molto, raccolgono acqua in maniera micidiale, sono in continuo movimento. Per superarli sono stati tracciati sentieri che salgono anche per 150 metri di dislivello, poi bisogna attraversarli con grandi problemi. Naturalmente non esistono ponti, dato che durerebbero meno di una stagione. Una volta attraversato il torrente, bisogna scendere per tornare sul sentiero originario, per poi, magari, trovare un’altra situazione simile poco dopo. Una salita che normalmente dura quattro ore diventa così anche di cinque ore e mezza, con tratti pericolosi, non accessibili a escursionisti medi».
Sentiero Schreckhornhütte
Il percorso di avvicinamento verso la Schreckhornhütte, con i fianchi incisi da profonde azioni di erosione © Luca Gibello

Interventi “per prova ed errore”

Tornando ai rifugi, Gibello è dell’opinione che siano necessarie riflessioni che possono condurre a scelte anche drastiche.
«Si può decidere che in certi posti i rifugi vadano dismessi, per ricostruirli da un’altra parte, magari in altre forme, più piccoli, oppure per non ricostruirli affatto».
Gibello cita il Rifugio Casati, nel gruppo Ortles-Cevedale, a 3269 metri di altitudine. «È un rifugio che sta andando giù. Siamo sicuri di volerlo ricostruire, con chissà quali investimenti di consolidamento del terreno, che durerebbero poco viste le trasformazioni rapidissime che sta vivendo la montagna?». Secondo l’esperto, la situazione attuale ricorda quella dell’Ottocento, quando si doveva decidere dove costruire i rifugi.
«Gli interventi di oggi assomigliano molto a quelli di allora, si va avanti per prova ed errore, in maniera empirica, nonostante gli studi di cui disponiamo adesso. Del resto, le sorprese le hanno anche i geologi».
Oltre al Casati, Gibello cita i problemi che riguardano la Capanna Margherita sulla Punta Gnifetti (4554 metri) e, spostandoci sul versante francese del Monte Bianco, il Rifugio del Goûter (3835 metri), la cui struttura attuale è stata inaugurata nel 2013.
«Proprio nel 2013 i progettisti spiegarono, in occasione di un convegno a Trento a cui ho partecipato, che il rifugio era stato costruito su una palificata che andava sottoterra per 14 metri, la cui stabilità era stata calcolata per un massimo di vent’anni. Non erano infatti stati in grado di prevedere gli scenari in un arco di tempo maggiore. Voglio sottolineare che dissero così nel 2013, quando la situazione era già drammatica, ma non come oggi. Dieci anni fa un rifugio, costato cinque milioni di euro, è stato costruito calcolando che le fondazioni non potessero durare più di vent’anni. Figuriamoci adesso… Insomma, ormai è doveroso presi qualche interrogativo».
Del resto, come ci ricorda Gibello, lo stesso Ulrich Delang, responsabile del reparto capanne e infrastrutture del Club alpino svizzero, la scorsa primavera «ha affermato pubblicamente che per certi rifugi (hanno un paio che stanno cedendo), stanno valutando l’ipotesi di non ricostruirli più. Rifugi anche frequentati».
Il Rifugio del Goûter © Cantieri d'alta quota

L’alta montagna diventerà inaccessibile?

In questo momento ci troviamo in una situazione che potrebbe portare, come scenario peggiore, alla sostanziale inaccessibilità di certe zone di alta montagna. Uno scenario che coinvolgerebbe i rifugi ubicati in quelle aree. «Io sono un collezionista di 4000, me ne mancano tre, tutti sul versante francese del Monte Bianco. In questi ultimi anni sto provando ad andare in quei territori, ma mi trovo davanti a dei pericoli elevatissimi. In uno contesto del genere, un rifugio aperto è una sorta di messaggio che “istituzionalizza” la possibilità di poter andare in un certo posto. Se non c’è il rifugio, come nelle vie alpinistiche che portano alle vette più remote, è chiaro che la frequentazione è totalmente a proprio rischio e pericolo». Altri ipotetici scenari negativi possono essere la riduzione del periodo di apertura dei rifugi dovuta alla mancanza di acqua. «L’estate scorsa il Gonella, aperto a metà giugno, ha chiuso a metà luglio. Potrebbe purtroppo diventare la regola, e non l’eccezione».

Assecondare i segnali dell’ambiente

Per quanto riguarda le possibili soluzioni per fare fronte alle attuali criticità che riguardano i rifugi d’alta quota, Gibello cita le operazioni di consolidamento del terreno, che però hanno costi elevatissimi.
«Per esempio, quella eseguita nel 2010 al Rifugio Ai caduti dell’Adamello è costata più della ristrutturazione dell’intero rifugio. Il tema, dunque, è più generale: vogliamo assecondare i segnali dell’ambiente che frequentiamo o vogliamo a tutti i costi andare contro la natura e la realtà? Facciamoci qualche domanda più generale, anche se ormai esiste la tecnologia per fare tutto. Certe scelte hanno ancora senso? E a che prezzo?»
La capanna della Schreckhornhütte
La capanna della Schreckhornhütte

Tornare alle radici

La conversazione tocca ora l’importante tema della funzione di presidio della montagna svolta dai rifugi. Una funzione che potrebbe forse venire meno. Gibello non la pensa così, e coglie l’occasione per riflettere sulla filosofia delle strutture d’alta quota.
«Un ridimensionamento di certi rifugi ci vuole. Certamente potranno restare un presidio, però più piccolo. Anche dal punto di vista della gestione si potrebbe pensare a una sorta di decrescita. Si potrebbe tornare a ricoveri più spartani, dove si consuma meno energia e dove non si pretende di avere il wi-fi, la possibilità di ricaricare il telefono o altre comodità. Si potrebbe tornare alle radici, come del resto il Cai afferma da tempo. Forse è un concetto da applicare davvero, anche per i gestori. Questi ultimi possono obiettare che così facendo la clientela si lamenterebbe, ma vorrà dire che qualcuno non andrà più, che ci sarà una sorta di selezione. I rifugi in questi ultimi anni stanno andando molto bene, non vedo un grosso problema se ci andasse un po’ meno gente».
Il presidente di Cantieri d’alta quota cita gli ingegneri che ricordano come la migliore energia risparmiata sia quella non consumata.
«Non dobbiamo sempre inventarci nuovi sistemi per produrre energia perché il fabbisogno ne richiede sempre di più. Facciamo in modo di richiederne un po’ di meno, accontentiamoci se la doccia non è calda e non si può starci sotto per venti minuti. Io frequento molto i rifugi, e posso confidare che una doccia non l’ho mai fatta. Credo si possa sopravvivere saltandone una».

Una gestione proattiva con i fruitori

Quella che Gibello immagina come possibile filosofia dei rifugi d’alta quota di domani, è una sorta di gestione proattiva con i fruitori. Questi ultimi potrebbero dare il proprio contributo in un’ottica di riduzione dei costi energetici.
«Quando saliamo, potremmo portare su qualcosa, come una confezione di latte, per ridurre gli impatti. Se lo facessero in tanti, nell’arco di una stagione occorrerebbe una rotazione di elicottero in meno per i rifornimenti. Può sembrare una cosa ingenua tornare a questi sistemi, ma, usando le App e la tecnologia, si potrebbero fare cose meravigliose. Secondo me avrebbe un senso. Poi, da utenti, è chiaro che dobbiamo accontentarci di quello che c’è, altrimenti servirebbe un rifornimento in elicottero ogni tre giorni, oltre a frigoriferi grandi, abbattitori di temperatura e quant’altro. In rifugio si deve andare per un’esperienza di montagna diversa».