Controstoria dell'alpinismo. Intervista a Andrea Zannini

Un'indagine sociologica che smantella i luoghi comuni su cui si basa la tradizionale storia dell'alpinismo, per restituire dignità alle popolazioni che da sempre abitano le Alpi. Una nuova co-edizione CAI-Laterza.

Controstoria dell’alpinismo (pp. 208, euro 18,00, Laterza-CAI 2024) è l’opera di un accademico: rigorosa, ricca di dati, ragionata in ogni passaggio. Ma muove dal bisogno personale di riportare giustizia là dove raramente si è avvertito che mancasse, ovvero nella storia dell’alpinismo. Dietro il professore di Storia moderna all’Università di Udine c’è infatti lo storico e l’appassionato di alpinismo che ha provato fastidio vedendo troppo spesso relegati a un insignificante «eccetera» tutti i montanari che per primi salirono una vetta, senza lasciar traccia dei loro nomi perché non li sapevano scrivere, o perché non sbandierarono le loro conquiste. Zannini si è spesso occupato di demografia e ha nelle sue corde accademiche la storia dell’Europa e del Turismo. Per questo la sua analisi si fa inevitabilmente anche sociale e attraversa tutto l’arco alpino diventando occasione per riflettere su ciò che diamo per scontato, inclusa la terminologia e l’attrezzatura alpinistiche, ma anche il modo di raccontare le salite.

L’opera si pone come naturale evoluzione di Tonache e piccozze, pubblicato 20 anni fa, nel 2004, dove indagava le figure dei preti-alpinisti. Un tentativo provocatorio di decolonizzare le Alpi dal paternalismo di chi per secoli si è arrogato il primato di averle inventate, condotto con la maturità culturale di chi sa guardare alla propria storia con onestà intellettuale.

Professor Zannini, vale forse la pena definire cosa è alpinismo, per capire come mai serve scriverne una controstoria.

Non mi preoccuperei di grandi definizioni: l’alpinismo è la pratica di salire le vette non unicamente camminando, ma mettendo le mani sulla roccia. Con tutto rispetto per il Petrarca, quindi, salire sul Mont Ventoux non è alpinismo, lo è quello del pastore che l’aveva salito ben prima. Le popolazioni che abitavano in montagna lo hanno praticato secoli prima che venisse codificato come tale, ma la storia tradizionale dell’alpinismo le ha ideologicamente escluse, identificando le origini dell’alpinismo con determinate condizioni. Questo è il senso della controstoria. 

Nella dichiarazione di intenti iniziale, lei si ripromette di voler fare i conti con i luoghi comuni presenti nelle varie storie dell’alpinismo: quali sono? 

Il primo è l’idea della “scoperta delle Alpi”, che invece sono abitate dalla nostra specie da almeno 40.000 anni. Pensiamo a Oetzi che nel IV millennio a.C. andava a oltre 3000 metri, o al passo dello Schnidejoch a 2700 metri (nelle Alpi Bernesi, Ndr) frequentato da migliaia di anni. Non c’è stata insomma alcuna scoperta urbana razionalista delle Alpi, se non da parte di chi visse prima del ‘700 perché ignorava le Alpi e gli alpigiani. Secondo: il concetto di “conquista delle Alpi”, come se alle persone che le abitavano non interessassero le montagne. Terzo: quello del “montanaro ignorante e incolto”, che per il suo stato di inferiorità congenita non aveva la capacità astratta di pensare di salire le vette. Il libro si snoda attorno a questi luoghi comuni, mutuati dalla storia del colonialismo europeo.

Quali sono le conseguenze di questa riscrittura?

Viene restituita un po’ di dignità alpinistica alla gente di montagna. Di conseguenza anche l’alpinismo ottocentesco viene letto in una maniera diversa, sulla scia di alcuni autori che avevano già sottolineato come per esempio il binomio guida-cliente fosse un costrutto sociale, non tecnico. I clienti borghesi e aristocratici, che dalla metà dell’Ottocento ritengono di inventare l’alpinismo, considerano le popolazioni montane, che sono contadine, di un grado sociale diverso e non le degnano nemmeno del nome di guida sulle prime salite. Dietro questo tipo di gerarchia sociale al tempo c’è la convinzione che chi non sapeva leggere non aveva diritto di voto. 

Possiamo fare un parallelo con gli sherpa dell’himalaysmo?

Sicuramente. A un certo momento c’è stata una rilettura postcoloniale della conquista degli 8000, lo stesso fatto che noi chiamiamo gli sherpa col nome del loro popolo sta a indicare quasi una categoria sociale, come se noi dicessimo “i bergamaschi” invece dei “portatori”. Anche in questo ambito negli ultimi anni ci sono stati molti interventi interessanti sull’aspetto sociale e post-coloniale dell’alpinismo degli 8000. 

Nei prossimi mesi uscirà il film Corno Grande. Pareva che io fussi in aria, di Luca Cococcetta, prodotto anche dal CAI, sulla salita di Francesco De Marchi con Francesco di Domenico alla Vetta Occidentale del Corno Grande, nel 1573 (anche se in un libro uscito nel 2023 Carlo Dolcini la colloca 10 anni prima). Come si inquadra questo episodio nella sua controstoria?

Quando durante la salita non ci sono più né sentieri, né scale, Di Domenico dice: “Io voglio andare in ogni modo”. L’altro gli risponde: “Dove tù anderai veniro anc’io”. Chi è tra i due l’alpinista? Secondo me è il cacciatore: nel suo voler andare in ogni modo, nel forzare i propri limiti, nell’essere affascinati dalla sfida io leggo uno spirito sportivo, più che esplorativo. Quella del De Marchi è più una curiosità. Anche perché Di Domenico dice che c’era già stato in cima, ma non l’aveva raccontato a nessuno, non c’era nessuno lì a fotografarlo, non aveva nemmeno scalpellato il nome in cima, forse non sapeva farlo. Non conosceremo mai quanti ce ne sono stati, di questi alpinisti sconosciuti, centinaia, migliaia forse.

Vale il vecchio motto: la storia la scrivono sempre i vincitori?

Capita che la scrivano anche i perdenti, ma in generale la scrive chi sa scrivere. Noi storici ci siamo imbattuti nel Novecento in due casi esemplari di storie non scritte: quella degli schiavi e quella delle donne, che inizialmente non sono considerati nemmeno come soggetti storici. Ma assumendo un soggetto come storico, ti poni il compito di trovare delle fonti che possano raccontarne la storia. Analogamente, nella storia dell’alpinismo, che viene spesso fatta da alpinisti e non da storici, bisogna provare a rovesciare la prospettiva in questa maniera e assumere come soggetti storici quelli che non sono stati considerati tali. Bisogna fare archeologia dell’alpinismo.

Quali documenti aiutano questo compito?

Spesso sono notizie che ci vengono da quegli stessi gruppi intellettuali che ritenevano di aver inventato l’alpinismo, quando riferiscono che per esempio si racconta che un contadino nel Settecento era salito in cima. La gran parte di queste prime salite non si scopriranno mai, ma questo non vuol dire che non possano esserci state e che chi le ha compiute non avesse reali intenti alpinistici. 

Però l’alpinismo contemporaneo si fonda sulla dimostrazione della prima salita…

Questo fa parte della codificazione dell’alpinismo come sport, avvenuta a metà Ottocento, quando nascono anche i primi club alpini, ma il Di Domenico non conosceva questa regola, anzi, non gliene fregava niente di dire che era stato in cima.

I club alpini: che ruolo assumono quando nascono?

Sono un elemento di congiunzione tra l’alpinismo come sport e l’alpinismo come turismo. Dal punto di vista politico hanno un orientamento liberale e nazionalista, dal punto di vista sociale sono molto borghesi, dal punto di vista economico hanno una forte funzione di collegamento con il turismo montano. La codificazione di cui parlavamo corre parallelamente al processo culturale che tende alla nazionalizzazione delle montagne e i club alpini sono fortemente influenzati dalle crescenti tensioni in questo senso. Con la fine del secolo trasformano la loro forte componente patriottica sempre di più in nazionalista.

Dedica un intero capitolo all’"alpinismo dal basso", ma molti di quelli che cita sono in realtà borghesi e benestanti…

Volevo sottolineare che questi primi alpinisti non necessariamente sono tutti cacciatori o contadini, c'è anche una borghesia alpina. Paccard è un medico, come Willonitzer che sale il Tricorno. Una delle componenti dello svilimento delle Alpi e degli alpigiani è non riconoscerne la stratificazione sociale, la ricchezza, i loro sistemi sociali complessi, come affermato dagli storici negli ultimi decenni. Non sono quel mondo di eguali, tutti poveri, tutti fratelli, che volevano descrivere De Saussure o Rousseau.

Il famoso mito del buon selvaggio…che ci ricorda l’importanza di non leggere il passato con i filtri emotivi e ideologici di oggi. Qual è l’antidoto?

Io credo ormai di essere incorso nell'errore contrario, partendo dal fastidio che provavo quando vedevo privati di dignità alpinistica i primi salitori solo perché non sapevano leggere, scrivere, o solo perché non avevano un club alpino a cui mandare la relazione della via. Con tutto che stabilire chi fu il primo è impossibile (un’ossessione tipica degli storici dell’alpinismo dove io vedo le tracce della mente conquistatrice europea): o meglio, lo si afferma anche, ma poi non se ne prendono le conseguenze. Invece, se già solo si arrivasse alla conclusione che la prima salita si perde nella notte dei tempi, la mia controstoria avrebbe dettato una nuova visione della montagna.