Articolo di Sergio Boem, socio della sezione CAI di Salò
Il sacrario del Passo del Tonale © Wikimedia CommonsSovente le montagne conservano molte tracce del passato, provengono dai tempi antichissimi o da quelli più vicini ma tutti inevitabilmente sono destinate a svanire. Testimonianze di eventi apocalittici di lontanissime ere, così come segni lasciati dagli uomini costellano i versanti: dalle opere erette per usufruire delle acque o delle risorse minerarie a quelle destinate allo sfruttamento delle risorse naturali. Le più tragiche sono senz’altro quelle lasciate dalle guerre. Appaiono alcune volte improvvisamente dietro la svolta del sentiero, colpendo la vista ma ancor di più l’anima, per ciò che di oscuro e tragico rappresentano. Sappiamo inoltre che sono frutto di lavori durissimi, svolti in condizioni precarie, con attrezzi quasi primitivi, scavati o costruiti per proteggere e difendere luoghi e uomini ormai dimenticati. Un’uscita sulle nostre montagne può diventare poi ancor più interessante, se si vuol inseguire la storia e le vicende umane, dopo specifiche letture o dopo aver consultato antiche cartine, per percorrere così gli stessi passi compiuti dai nostri nonni.
Proprio per questo incappai un giorno, in una posizione di difesa lungo una cresta del Monte Cady (2628 m), un luogo dimenticato anche dagli escursionisti che preferiscono di gran lunga salire sulle nobili cime che sono di fronte: la Presanella per esempio, la cima più alta del Trentino, oppure toccare ciò che resta della coltre ghiacciata di Cima Presena.
Operazione Valanga
Il glabro e poco interessante Cady invece, non offre pareti o ghiaccio e nemmeno graniti, ma per la storia umana rappresenta invece un baluardo importante di quel valico alpino del Tonale, il più agevole tra la Svizzera e il Garda. Furono infatti ben 25 gli eserciti che lo varcarono in passato per scendere in Italia e gli ultimi a tentare furono gli austriaci, il 13 giugno del 1918, quando si lanciarono a migliaia contro quella cima fortificata e sul baluardo opposto: le creste dei Monticelli.
A caccia di emozioni ed esplorando il versante del Cady, ci si imbatte facilmente nelle linee di difesa italiane appena sopra il limite massimo raggiunto dalle ruspe che, nei decenni scorsi, hanno trasformato un terreno di memorie e testimone di drammatici sacrifici, nella palestra per gli sciatori della domenica. Curioso il ricordare che spesso sono proprio i nipoti di quei sofferti combattenti, a frequentare quelle piste, a volte ignari e privi di una memoria storica quanto di quella famigliare.
Lassù, seguendo il cammino di mio nonno un giovanotto romano che mai aveva visto la neve, giunsi sul luogo del combattimento più aspro e drammatico di 41 mesi di lotta su quel fronte. Camminavo tra le testimonianze ancora visibili sul terreno, arato dalle trincee e tempestato dai crateri delle granate, un luogo solitario e percorso solo dal vento, eppure un tempo una postazione militarmente importante, visto che domina la Valle Albiolo a lato e il valico sottostante. Una piccola ridotta circondata da un terreno intriso di dolore, persa e ripresa più volte dagli opposti schieramenti.
Pochi conoscono quel caposaldo, il vero cardine della difesa italiana dell’intera montagna, “il nido di rocce”, così chiamato sulle carte degli assalitori austriaci che preparavano l’assalto. Ancor meno ne conoscono la storia, visto che quella violenta offensiva imperiale che puntava a Milano (Operazione Valanga), non ha alcun testo dedicato e per ricostruirne l’intera vicenda resta ancora molto da fare. Solo il “Diario Storico” di alcuni reparti protagonisti in quella giornata riportano, pur freddamente, lo svolgersi schematico di avvenimenti che furono invece il destino definitivo per molti.
Il diario del battaglione alpino “Valcamonica” poi, riporta nei giorni successivi una nota apparentemente curiosa e senz’altro unica in quel testo e scritta da mio nonno, divenuto Aiutante del Comandante di quel reparto, riguardante le salme dei degni avversari dei nostri avi. Li cita infatti espressamente per numero, ben 94, posizione e luogo di sepoltura; sono solo alcune righe scolorite quanto lo sono un messaggio in una bottiglia. Una segnalazione molto specifica e me ne chiesi a lungo la ragione, convincendomi in seguito che solo il rispetto per il valore e la determinazione di quegli avversari, così caparbi nell’assalire la cima, ne fosse il vero motivo.
Il combattimento e il ritrovamento dei corpi
Il combattimento durò 14 ore e fu davvero furioso, gli austriaci risalirono il pendio totalmente allo scoperto, martoriati prima dal fuoco preciso della nostra artiglieria, poi falciati dalle mitragliatrici e dai fucili e infine decimati nei violenti corpo a corpo nelle trincee. Il risultato di un’offensiva ambiziosa, preparata però in modo affrettato e condotta con poca convinzione, fu tragico e i prati sconvolti del Tonale a fine giornata erano costellati dai corpi di soldati imperiali martoriati. Era davvero necessario rimuovere al più presto quelle centinaia di caduti di fronte alla nostra linea del fuoco, ma non citarne meticolosamente il luogo e la profondità dell’affrettata sepoltura. Purtroppo citai ingenuamente in un mio testo, quella curiosa segnalazione, convinto che fossero stati recuperati nel dopoguerra, e questa fu una leggerezza di cui dovetti in seguito amaramente pentirmi.
Decisi comunque di approfondire la vicenda, ma non trovai alcuna traccia o notizia, nei registri parrocchiali, sui giornali dell’epoca o altrove, di una loro translazione e iniziai a preoccuparmi: forse quel mistero era dunque ancora custodito dalla montagna. L’agitazione poi, aumentò a dismisura quando mi accorsi che in quel luogo, una profonda buca causata da un colpo di artiglieria, era molto diversa dalle altre e appariva infatti quasi un giardino fiorito: rododendri, fiori e festuca, addirittura abeti, tutto davvero fuori luogo per quella quota. Qualcosa evidentemente, doveva fornire un adeguato nutrimento e sali minerali. Poteva essere del legname delle baracche di quel conflitto, ma forse anche altro.
I sospetti di un anonimo cittadino però, pur con un documento ufficiale in mano, non bastano ad attivare un saggio di scavo o una ricerca e, pur dopo l’interessamento del Soprintendente trentino Nicholis, nessuno degli enti territoriali o istituzioni pareva voler indagare su di una vicenda dubbia e lontana nel tempo, inutile ai fini turistici e forse anche un po’ macabra.
I tanti che frequentano la montagna, non per il piacere che a tutti noi dona, ma per depredarla dalle testimonianze e delle dotazioni dei due eserciti che ancora giacciono ovunque, non parevano rappresentare un pericolo per loro. Ma si sbagliavano.
Nel 2019, tornando nello stesso luogo, trovai difatti il terreno sconvolto e le ossa di quei poveri protagonisti degli eventi, sparse desolatamente come sassi sul terreno. Il ritrovamento di quelle prime salme mise però finalmente in moto l’opera di scavo, che fu per altro minuziosa e direi appassionata, visto ciò che giornalmente veniva alla luce e che mostrava, in tutta la sua drammaticità, l’orrore della guerra e la sua bestiale violenza.
Immagini desolanti di bocche spalancate da cui sarebbe bene ascoltare ancora oggi l’urlo, un monito riemerso dal nostro passato circa questo drammatico presente e sui rischi che sopra noi incombono minacciosi.
Morte e burocrazia
Furono dunque 12, i primi corpi raccolti nella buca scoperchiata dai sacrileghi tombaroli, e altre due fosse comuni contengono le salme rimanenti. Un destino beffardo ha voluto che tra di loro scorra il confine tra due Regioni e due Provincie: tanto basta a variare il loro destino. Credevo infatti che un evento simile, portasse automaticamente al proseguo dei lavori di scavo e al recupero di tutti i caduti, come reclama l’interesse storico e della memoria, quello culturale o il religioso, quello militare e l’archeologico, ma soprattutto quello proprio di tutti gli esseri umani: la pietas nata con i Neanderthal, ma mi scontrai con la sparizione del “Buon senso”.
Sottovalutazioni, burocrazia e forse disinteresse, impediscono ai quei ragazzi di scendere finalmente da quel fronte di guerra pur un secolo dopo, insomma gli è negato il diritto di una onorata sepoltura dopo quel loro estremo sacrificio.
Ci è stato assicurato che la protezione a distanza del loro riposo, su di un pendio montagna a 2200 metri e immerso spesso nelle nuvole, sarà garantita: personalmente nutro dei dubbi. Il rispetto per dei morti e soprattutto per dei caduti in guerra, ci pare infatti cosa ovvia e dovuta; sono dei ragazzi venuti da lontano, per lo più ungheresi e romeni, fermati lassù e seppelliti sommariamente dai nostri nonni nella nuda terra. Credo che già siano motivi sufficienti per agire rapidamente.