Cesare Maestri, il ricordo di Giarolli: «Aveva una grande sensibilità»

Nell'anniversario della sua nascita è bello ricordare anche l'aspetto umano. «Quando sentiva che c'erano delle regole, gli prudevano le dita. Gli prudevano le dita e poi andava, questo era il suo alpinismo».
Cesare Maestri
 
Istrionico, controverso, esagerato, audace. Molti sono stati e sono tuttora gli aggettivi usati per definire Cesare Maestri, di cui oggi ricorre il genetliaco. Tante definizioni, volte per lo più a tratteggiare una personalità dalle mille sfaccettature: un uomo la cui tensione verso l'alto è sempre stata una sfida alle regole costituite, una riscrittura della realtà che però non era mai frutto del freddo calcolo o del bisogno di affermarsi, ma una pulsione profonda e sincera. L'esigenza di mostrarsi per quello che era, nel bene e nel male.

Sono passati 95 anni dalla nascita di un alpinista che ha segnato un'epoca, a prescindere dalle troppe polemiche che lo hanno afflitto, come uomo più che come scalatore. La ricerca di una sterile verità - con sterile ovviamente intendo nella mia personalissima opinione- da parte di alcuni suoi colleghi, fino agli ultimi anni della sua vita e anche oltre, ha messo però in secondo piano non solo le sue tante imprese sulla roccia, ma le sue qualità umane, umanissime, che oggi invece è bello ricordare ancora.

Lo fa con noi Maurizio Giarolli, alpinista e guida alpina che molti ricordano per la prima invernale al Cerro Torre nel 1985 proprio per la via del compressore (con Caruso, Sarchi e Salvaterra), e che di Cesare è stato buon amico. I due si sono incontrati per la prima volta ad Alba di Canazei, quando Icio era ancora un aspirante guida e Maestri aveva già compiuto le proprie imprese. «Era il 1981, durante il corso Cesare era venuto a fare una lezione di storia dell'alpinismo, ma la fece assolutamente a modo suo. Ci raccontò molto della sua storia, del suo alpinismo, naturalmente aveva quasi omesso tutto il resto, gli altri c'erano ma erano comprimari. C'erano stati dei racconti commoventi e anche due lacrime, quando aveva parlato della storia del Torre e di Toni Egger. Cesare aveva questo modo di fare per cui prendeva la scena e si metteva al centro, ma era una persona molto sensibile e in quel primo incontro lo capii benissimo».

Giarolli aveva salutato Maestri a fine corso, con quel pizzico di soggezione «che era dovuto anche a una certa differenza d'età e al suo prestigio. Ci siamo poi incontrati nuovamente a inizio estate. Io e un mio amico che si sposava eravamo andati in Sardegna a fare le vacanze in moto e siamo finiti vicini a Capo Orso, vicino a casa sua. Lui aveva una casetta che si era costruito in un campeggio militare, andavano a dargli la mano Carlo Claus ed Ezio Alimonta. Un po' facevano i muratori, un po' scalavano. Era una casa molto umile, ma molto ben curata: una vera chicca. Si era fatto anche prestare una barca da un pescatore che gliela lasciava per quel mese che era in vacanza. Uscivamo insieme, poi però lui andava a pescare da solo, aveva sviluppato questa passione per il mare. Mi prendeva in giro, molto boanriamente, perché una volta mi aveva chiesto di fare un nodo barcaiolo intorno a una grande bitta, ma io non ero abituato a quella situazione, ero abituato ai moschettoni e mi ero incartato. Era simpatico, era sempre molto umano».

Con gli amici Cesare sapeva prendere una forma diversa da quella esuberante che teneva in pubblico. «Non faceva lo spaccone. Era una persona molto attenta e la sua sensibilità si manifestava in tanti modi. Mi ricordo di un'altra volta in Sardegna, eravamo andati a fare quello che oggi si chiama boulder, a giocare sui sassi. Lui aveva già smesso con l'alpinismo, ma era una persona di grande compagnia, sapeva sempre essere simpatico. Nei racconti cercava di trovare un modo per tenere viva la compagnia. Veniva anche a trovarmi in Val di Sole, a mangiare la torta di patate in locanda, a Malé». Alcune arrampicate di Maestri sono rimaste avvolte di un alone di mistero, le sue gesta spesso sono state oltre le righe «ma aveva un animo buono. Era una persona molto sensibile, solo che a volte entrava nella parte, in pubblico faceva lo spaccone. A El Chalten nel '57 ha tirato fuori la pistola, insomma sappiamo com'era fatto. Ha sempre mantenuto questo animo curioso, dentro di lui c'era un ragazzino mai stanco della vita. Anche quando ci vedevamo in negozio, da lui. Mi ricordo che io passavo con i clienti a salutarlo, lui faceva l'anfitrione. Teneva "le cose dal mondo" di Cesare Maestri, tutti quei ninnoli che si portava dai suoi viaggi in Africa, in giro per il mondo e che lì facevano bella mostra. Era una persona entusiasta della vita».

Nel suo modo di vivere l'alpinismo e la vita stessa, il suo passato aveva avuto un ruolo importante. «Sono molto felice di averlo conosciuto un po' di più, più di quello che si poteva vedere in pubblico. Non si è mai allontanato dalle sue origini, aveva conosciuto la povertà vera. Mi ricordo che parlava del quartiere da cui proveniva, mi pare nominasse la portela di Trento. Era oroglioso di avere fatto il ladroncello, per sopravvivere si arrangiava con piccoli furti ai danni dei soldati. Con i suoi amici rubava la benzina, erano tempi difficili. Diceva spesso che se non avesse fatto l'alpinista sarebbe diventato un delinquente». Sapeva - e lo si è visto benissimo anche nel corso della sua carriera- mettersi contro. Ma faceva parte integrante di questo suo vissuto. «Le sue sfide non nascevano mai dal calcolo, dall'ambizione fredda. Anche quando creava la sua immagine lo faceva per il gusto che provava e quando sentiva che c'erano delle regole, gli prudevano le dita. Gli prudevano le dita e poi andava, questo era il suo alpinismo».