Ci piace immaginarlo al presente, ancora al lavoro nello studio della sua casa in Val Giardini, ai margini del bosco, con accanto l’inseparabile cane Cimbro e la macchina da scrivere donatagli dal suo grande ammiratore e amico Adriano Olivetti.
Dopo la mattinata immerso nella scrittura, trascorre il resto della giornata all’aperto, in mezzo al suo arboreto salvatico che ha piantato negli anni: larici, pini, betulle, querce. Venti tipi diversi di alberi. Ciascuno con il suo significato.
Il suo preferito è il larice perché «vive sulle rocce anche dove non c’è niente. È come quei montanari che resistono sulla montagna, in una baita, malgrado tutto».
Il bosco mi ha guarito la testa, ama ripetere.
«Un albero senza radici non può vivere e lo stesso dicasi dell’uomo senza la natura. Perciò dobbiamo riscoprirla e amarla. L’armonia della foresta è una cosa che sbalordisce, a conoscerla».
La foresta, gli animali selvatici, il suo l’Altipiano dei Sette Comuni. Per noi non si è mai mosso da lì. Saggio centenario fra le sue montagne, in giro per i boschi con un paio di sci. Cantore delle storie della sua terra, del paesaggio, che era in grado di leggere come una pagina scritta. Ambientalismo, impegno civile e politico, dovere della memoria, in Mario Rigoni Stern si uniscono in una scrittura rigorosa, limpida e profonda.
«Io domando tante volte alla gente: “Avete mai assistito ad un’alba sulle montagne?”. Salire una montagna quando è ancora buio e aspettare il sorgere del sole. È uno spettacolo della natura che nessun altro mezzo creato dall’uomo può donare. Ad un certo momento, prima che il sole esca dall’orizzonte, c’è un fremito: non è l’aria che si è mossa, ma è qualcosa che fa fremere l’erba, le fronde, l’aria stessa. È un brivido che percorre la pelle. Per conto mio, è il brivido della creazione che il sole ci porta ogni mattina. In quel momento senti il canto del codirosso, seguito da quello del pettirosso e subito dopo vedi un capriolo. E quando il cielo è ormai chiaro e le stelle sono sparite, ti accorgi che sopra di te vola un’aquila. Ma prima hai sentito il brivido».
In quel “brivido” c’è l’essenza della natura per Rigoni Stern, che nella nostra memoria rimane a Poldrecche, alle pendici del Monte Zebio, mentre aspetta l’imbrunire per sentire il canto degli uccelli. Osserva le piante e cerca i segni degli animali, la loro presenza, attardandosi fin quasi a notte.
Mario Rigoni Stern fra le sue montagne © iluoghidirigonistern.it
«Il bosco. Cattedrale del creato: le luci che filtrano dall’alto, i fruscii, i suoni, gli odori, i colori sono mezzi per far diventare preghiera le tue sensazioni da offrire senza parole ad un dio che non si sa. Forse da qui sono nati per la prima volta nell’uomo l’idea, il pensiero, la riflessione».
Cent’anni fa, il 1° novembre 1921, nasceva Mario Rigoni Stern, uno dei maggiori narratori del nostro Novecento. Fra le sue opere più famose: Il sergente nella neve, Il bosco degli urogalli, Storia di Tönle, Quota Albania, Arboreto salvatico, Stagioni. Primo Levi, suo grande amico, lo definì «uno dei più grandi scrittori italiani».
Il Club alpino italiano ha voluto ricordarlo attraverso le sue parole dedicate alla natura “salvifica” e “da salvare” perché – spiegava citando Giacomo Leopardi e il suo Zibaldone – «se l’uomo distrugge la natura recide le radici del futuro».