Da sinistra: Davide, Amedeo, Dario, Roberto © R. MorL'arrampicata, soprattutto quella di carattere sportivo, sembra sempre più improntata alla ricerca della performance: la crescita esponenziale della pratica indoor sicuramente ha contribuito al miglioramento dei risultati su roccia di un gran numero di scalatori. Il 6a, che una volta era considerato un "signor grado", oggi è a malapena un punto di partenza per chi vuole levarsi di dosso l'etichetta di principiante. I climber sono sicuramente più allenati e non è facile capire se il miglioramento medio è frutto solo di muscoli più tonici o di tecniche meglio affinate. Quel che si riscontra però, girando per qualche falesia, è soprattutto una marcata attenzione al grado in sé, come indice del valore di una scalata.
Data per buona questa premessa, non tutti la condividono. Brocchi sui blocchi è una community di giovani scalatori che ha scelto, scherzosamente ma non troppo, di opporsi a un modo di intendere l'arrampicata tutto orientato alla prestazione. Nel giro di 8 anni hanno raggiunto i 12mila follower su Facebook, i 35mila su Instagram. Amedeo Cavalleri, di Salò, è uno dei fondatori.
Come siete nati?
Siamo nati nel 2026 da un gruppo di WhatsApp, gente che scalava insieme. Erano comunicazioni tra di noi, poi nel 2017 ho aperto un profilo social, una pagina Instagram. Da quel momento abbiamo iniziato a raccontarci. Qualcuno si è staccato, qualcuno si è unito, la crescita è stata abbastanza lineare. Anche se, come succede in questo campo, a un certo punto, se diventi abbastanza grande poi cresci davvero tanto. Dopo il Covid abbiamo iniziato a collaborare con alcune aziende. Attualmente siamo in quattro operativi: io, Davide Borgogno, Dario Cressoni e Roberto Mor.
Qual era il messaggio iniziale e come è evoluto? Sempre che sia cambiato.
Il progetto si è evoluto, è maturato insieme a noi. All'inizio volevamo soprattutto mettere in discussione la performance come aspetto centrale dell'arrampicata, poi il messaggio è diventato più articolato, abbiamo spiegato meglio secondo noi da dove viene questa tendenza. Crediamo che in parte abbia a che fare con il sistema capitalistico, dove siamo tutti spinti a produrre di più, a ottenere risultati, a misurare tutto. Crediamo che molto del malessere della società derivi da questa cultura e crediamo che in parte si stata trasposta anche nell'arrampicata. Per noi invece scalare è proprio una fuga da questa società, per creare un ambiente che invece ci faccia stare bene. Insomma, la nostra è una critica alla società. E poi ci sono tanti altri aspetti della cultura dominante che, purtroppo toccano anche l'arrampicata: il sessismo, il machismo, i problemi connessi alla crisi climatica.
Il vostro linguaggio è fresco: foto con frasi divertenti e provocatorie, la voglia di ridere accompagna sempre i vostri messaggi.
Sì, perché innanzitutto non vogliamo prenderci troppo sul serio, e poi ridere aiuta a togliere la pressione. Negli anni, le persone che si sono avvicinate a noi ci hanno raccontato di gruppi di arrampicata dove si pensava solo a ottenere il risultato e che li avevano stufati.
Brocchi sui blocchi in Val Masino © R. MorUna volta era una prerogativa di "quelli forti", ora sembra che anche su livelli più bassi ci sia molta serietà.
Per assurdo c'è gente che va alla ricerca del 7a facile per dire di averlo fatto, il grado diventa l'unico metro di giudizio. Non si guarda più alla bellezza di una linea, alla sia storia. Non importa nemmeno dove si va, il contatto con la natura. Noi invece mettiamo proprio questo davanti a tutto.
Ho notato anche una certa tendenza a tentare solo quello che si conosce attraverso un telefono, una relazione. Quasi non ci si fida più delle proprie mani, dei propri occhi, della voglia di provare.
Certo, bisogna sapere tutto, vedere il video per capire come muoversi. Ma anche se il tiro è troppo facile non piace. Magari è pure bello, ma non basta.
Credi che sia un problema delle nuove generazioni o diffuso?
Noi siamo millennials ed è qualcosa che mi sembra molto presente, molto legato alla nostra generazione.
C'è paura di fallire?
Sì. L'anno scorso ho pubblicato un libro con De Agostini. Si chiama Abituati a cadere. L'accento è sulla a, anche se c'è un gioco di parole. Non è un elogio del fallimento, ma questa società ci mette addosso ansie e paure, tra cui quella di sbagliare. Bisogna togliersela di dosso. Così come questa concezione che la competizione sia naturale: io credo invece che l'uomo sia un animale sociale. E così, anche nell'arrampicata, la competizione va bene per chi fa le gare, ma per il resto ha poco senso. Anche perché siamo tutti diversi, partiamo da basi diverse, abbiamo mezzi diversi. Anche nell'arrampicata, non tutti hanno lo stesso tempo da dedicare alla scalata, la stessa conformazione fisica. Cosa vogliamo confrontare?
Amedeo ai Lavini di Marco © D. CressoniArrampicare può essere una medicina contro il capitalismo?
Sì, non è "solo" una fuga, ma per noi è una priorità rispetto ai doveri imposti. Abbiamo appena iniziato un podcast, si chiama Preferisco ghisarmi. E infatti ogni puntata inizia con una cosa del tipo: "Avrei dovuto fare questo, ma ho preferito andare a ghisarmi". Insomma, andare a scalare è una scelta, non serve solo a trovare un equilibrio. Ci insegna cose diverse: a studiare i nostri limiti, ad accettarli, a imparare dal fallimento. E ci crediamo così tanto che ci abbiamo messo due anni a farlo partire: perché alla fine preferiamo sempre andare a ghisarci, piuttosto che fare il podcast!
Credi che sia possibile vivere così anche crescendo, mettendo su famiglia e invecchiando?
Sì, assolutamente. Noi lavoriamo tutti, abbiamo una vita normale, qualcuno ha anche famiglia. Paradossalmente, ora che ci siamo più affermati, riceviamo pure meno critiche sui social. Perché comunque hanno visto che non siamo campati per aria. Siamo dentro la società, ma con il nostro modo di vedere le cose.