"Bilinguismo sui cartelli di montagna, una questione di sicurezza"

Gajer, presidente del Soccorso alpino altoatesino, interviene sul caso dei toponimi italiani cancellati in Val d'Ega. Traduzioni, per Zanella (Cai) "il faro dovrebbe essere il buon senso"

Torna d’attualità il dibattito, mai sopito, sui toponimi bilingui in Alto Adige. Azioni e gesti di protesta non si contano, da una parte e dall’altra. L’ultimo, in ordine di tempo, è quello che ha visto la “cancellazione”, con un pennarello nero, dei toponimi italiani dai cartelli lungo i sentieri di montagna della Val d’Ega. Resta Deutschnofen, non Nova Ponente. Bozen, non Bolzano.

Più che di politica, una questione di sicurezza. Lo sostiene Giorgio Gajer, presidente del Soccorso alpino dell’Alto Adige: “Quando una persona in difficoltà chiama i soccorsi – afferma – è importante che sia in grado di fornire indicazioni corrette su dove si trova. Se non è in grado di leggere o di capire i nomi dei luoghi, perché scritti in un’altra lingua, il rischio è duplice: per lui, di non essere trovato; per noi, di esporci a situazioni di pericolo”. Gajer non nasconde il proprio rammarico per quanto accaduto. “La speranza è che sia un caso isolato, ma certo è un peccato. Si investe tanto sulla tecnologia e su sistemi di ricerca sempre più avanzati per essere rapidissimi negli interventi, e poi succedono queste cose”.

Quello del bilinguismo e della convivenza tra gruppi linguistici è uno dei temi fondanti e più controversi dell’Alto Adige. Prima del 1920, anno dell'annessione all'Italia, il Tirolo del sud (Südtirol) era territorio austroungarico. La popolazione, a maggioranza tedesca, deve fare i conti con l’italianizzazione forzata sotto il fascismo. La lingua tedesca viene messa al bando, e per portarne avanti l’insegnamento nascono le Katakombenschulen, le “scuole nelle catacombe” che sono clandestine. È l’epoca delle “opzioni”: l’accordo, tra Hitler e Mussolini, prevede la possibilità, per i sudtirolesi, di trasferirsi nel Reich. Ma optare per la cittadinanza tedesca significa espatriare e abbandonare tutto: lo fanno in 75 mila (25 dei quali torneranno indietro dopo la guerra). È nel 1946, a margine della Conferenza di pace di Parigi, che vengono gettate le basi per la tutela e la convivenza pacifica tra i gruppi linguistici nell’accordo De Gasperi-Gruber (dai nomi dei primi ministri degli Esteri di Italia e Austria). Nel 1948 l’assemblea costituente italiana approva il primo statuto di autonomia (quello in vigore oggi è il secondo e risale al 1972), ma per arrivare alla risoluzione della “questione altoatesina” bisogna aspettare il 1992, anno della quietanza liberatoria dell’Austria (l’atto formale con il quale, davanti all’Onu, si chiude la vertenza internazionale sull’Alto Adige e la tutela dei gruppi linguistici).

Un percorso travagliato e non ancora concluso, come dimostrano i gesti dimostrativi di chi, ancora oggi, cancella dai cartelli di montagna i toponimi italiani. Un fenomeno diffuso a macchia di leopardo, osserva Carlo Alberto Zanella, presidente del Cai Alto Adige, e che si interseca con il tema della cartellonistica monolingue. “Sono convinto che non serva avere traduzioni integrali di qualsiasi toponimo – precisa –. Non ha senso tradurre nomi come “Schneiderwiesen” che, in italiano, sarebbe qualcosa come “Prati del sarto”. Accanto ad “Alm” basterebbe indicare la parola italiana, malga”. Così come non ha senso, sostiene Zanella, la doppia dicitura per qualsiasi località. “Ha senso per quelle turisticamente più importanti, non per le cime secondarie che conoscono solo le persone del posto. Il faro dovrebbe essere il buon senso”.