Piero Radin © Gruppo Rocciatori Renato CasarottoPiero Radin, socio del CAI di Vicenza, Accademico con un curriculum stellare, a 80 anni è ancora in piena attività quotidiana, visto che arrampica ancora in vie alpinistiche con difficoltà anche di VII grado. E senza le falangette di una mano, perse durante un incidente di ritorno dalla vetta dell'Annapurna.Un esempio per molte persone della sua età ma anche per i più giovani.
Tra gli alpinisti c’è chi racconta la propria esperienza in libri e conferenze. Altri lo fanno in silenzio e le loro esperienze diventano semplicemente risposte alle domande che la gente porge loro. Questo è il caso di Piero Radin, un alpinista che a ottant’anni ha osservato, letto, salito e amato chilometri di pareti.
Chi è Piero Radin?
Uno qualsiasi! Perché quello che ho fatto mi è sempre venuto spontaneo.
Come hai iniziato ad arrampicare?
Ho conosciuto due ragazzi che mi hanno chiesto di andare sulle Piccole Dolomiti: ho provato a salire un IV grado e ci riuscii. Poi ho conosciuto Renato Casarotto in Gogna: gli dissi “sei bravo ad arrampicare” e lui mi rispose “aspetta ad avere la mia età!”. Gliela chiesi: aveva quattro anni meno di me!
Chi è l’alpinista?
Per me è una persona che ha voglia di fare avventure, esplorare, farsi ispirare dall’incognito. Ai miei tempi spesso sapevamo solo dove fosse l’attacco della via e poi salivamo alla scoperta.
E tu come sei?
Io sono uno solitario. Soprattutto non amo essere “inquadrato” Esserlo è la morte dell’alpinismo! Se raggiungiamo l’omologazione anche in montagna, e tutto diviene sicuro e programmato, l’alpinismo puro svanisce.
Com’è la solitudine in montagna?
Bella: vivi completamente la montagna. Scalai in solitaria la Vinatzer in Marmolada nel ’77. La sera mi trovai a un tiro di corda dalla cengia: non conoscevo la via e decisi di bivaccare in una grotta. La notte illuminata dalle stelle mi fece venire i brividi. Sono sensazioni che provi quando vivi l’avventura: questo è alpinismo!
Hai mai avuto paura?
Certo, sempre. Soprattutto la notte prima della salita. Ma è una paura che controlli, altrimenti è meglio restare a casa. In montagna il pericolo c’è, bisogna esserne consapevoli. Se non ci fosse la forza di gravità, chi andrebbe ad arrampicare?
Come capisci quando è il caso di fermarsi e tornare?
Se la parete non è nelle condizioni o se non hai la giornata giusta, è meglio tornare. Puntare troppo in alto no, non va bene, perché in montagna l’irresponsabilità e la presunzione le paghi.
Chi è per te un compagno di cordata?
Deve crearsi sintonia, ci si deve incitare a vicenda e sostenersi nei momenti duri. E la fiducia è fondamentale.
Com’è oggi, a 80 anni, l’alpinista Piero Radin?
Ah, io mi piaccio anche oggi! Sono più stanco, ma arrampico ancora e mi diverto. Salgo al mio ritmo: vado più lentamente, ma mi piace, perché percepisco meglio i movimenti, senza cercare performance.
Cosa ti ha regalato la montagna?
Bei ricordi. È un’esperienza generativa: quando torni a casa dopo un’avventura in montagna, apprezzi di più ciò che hai. La montagna ti riempie di una ricchezza che la natura, lo stimolo, l’adrenalina, la soddisfazione ti danno.
Che consigli daresti a chi vuole iniziare a scalare?
Di non pensare solo al grado, ma coltivare la passione per la montagna. Consiglierei di iniziare con le camminate, per conoscere i sentieri, sapersi orientare. Livanos spesso partiva al pomeriggio per affrontare una salita, perché diceva che se non bivacchi dentro la montagna, non te la vivi abbastanza.
Come vedi l’alpinismo del futuro?
Vedo davanti a me una società che spesso tende a inquadrarti, a farti pensare in un certo modo. Se rinascessi, mi piacerebbe essere un gatto: è indomabile, fa quel che vuole. Seguire l’andamento della vita: la montagna te lo insegna e anche questo è libertà.
Siamo certi che c’è molto altro da scrivere. Magari non nero su bianco, ma in quel cielo trapunto di stelle che sa come mantenere un segreto.
Il sorriso in parete di Piero Radin © Gruppo Rocciatori Renato Casarotto