Alt(r)i racconti. Dietro le quinte di un'avventura

Quando arriva il momento di incamminarsi, la curiosità è alle stelle, più o meno quelle che si vedono brillare in cielo, visto che è ancora notte. Succede però che in pochi minuti la fatica si irradi oltremisura nel mio corpo: lo zaino carico di materiale e la ripidità del pendio innevato non concedono di certo uno sconto, ma dovrei essere abituata, no?
© Marta Corrà

Ero così motivata, la sera precedente, che non ho nemmeno pensato se fossi pronta, ad affrontare quella salita. Con pronta intendo sì mentalmente, ma anche fisicamente.  

Purtroppo però, siccome il mio cervello somiglia più al groviera che ad un organo pensante quando a inizio stagione arrivano il primo ghiaccio e la prima neve, avrei risposto “andiamo” anche alle peggiore delle idee. Valutata poi che l’idea in questione fosse, oltre che invitate, in linea con le capacità che mi ricordavo di avere, mi sono trovata in cucina a fare colazione a uno di quegli orari in cui potrebbe benissimo essere scambiata per una cena, se abitassi anche solo una manciata di paralleli più a sud.

Quando arriva il momento di incamminarsi, la curiosità è alle stelle, più o meno quelle che si vedono brillare in cielo, visto che è ancora notte. Succede però che in pochi minuti la fatica si irradi oltremisura nel mio corpo: lo zaino carico di materiale e la ripidità del pendio innevato non concedono di certo uno sconto, ma dovrei essere abituata, no? 

Cercando di rispondere alla domanda, mi ricordo che l’esercizio fisico dei mesi precedenti era stato pari a quello di un criceto d’appartamento e che non mi ero potuta permettere il lusso della mia usuale routine d’allenamento. Semplicemente la montagna non era stata prioritaria quanto avrei voluto e ne stavo subendo le conseguenze sulla mia pelle, nei miei muscoli, nel mio proiettarsi verso l’obiettivo scelto.

© Marta Corrà

Per quella che pare una scarsa oretta cerco di stare al passo con la comitiva, poi cedo al distacco. Nel momento in cui realizzo di non poter recuperare, la mia testa entra in cortocircuito e il battito accelerato si trasforma in un cavallo senza redini. Il panico arriva alla gola, e per mandarlo giù devo fermarmi, per contenerlo non devo esplodere. Da una parte il fare i conti sulle aspettative che avevo inevitabilmente riposto su di me una volta partita, dall’altra il timore di rallentare l’intero gruppo; la pesantezza di dover scegliere se adagiarsi nella razionalità di una ritirata, o sfidare testa e corpo con il cuore.

Mi guardo intorno e vedo delle piccole luci in lontananza, altre cordate si avvicinano, altri occhi dal quale giudizio non potrò sottrarmi. Mi volto verso i miei amici, le loro parole di incoraggiamento risuonano al crepuscolo mattutino: “Dai Marta, che ce la fai!”. E di risposta il mio cervello, a impuntarsi: “Ma dove pensi di andare?”. Ad ogni passo che provo a fare, la voce nella mia testa mi trascina indietro, mentre il conforto dei compagni mi guida avanti. Sono divisa: sfioro il terrore di un’ingiustificato insuccesso, mentre la memoria della passione mi alimenta come un fuoco. Così confusa, ma grata, arrivo alla base della goulotte giusto in tempo per farmi superare da due uomini che paiono avere una gran fretta. I loro sguardi mi trapassano, e per un momento penso mi possano leggere così come un libro aperto. Avranno capito come mi sento? Mi percepisco nuda e vulnerabile nel momento meno opportuno, o forse proprio in uno di quei momenti in cui le risposte arrivano da sole.  

Ora che sono arrivata, come salgo? No dai, non salgo, posso ancora tornare indietro. Non ho freddo. Ma sembra difficile. Però è una cascata bellissima, irresistibile. Sì, ma non ci riesco. Eppure dovrei sapere come si fa. Ma se faccio brutta figura? Quanto vorrei non ci fosse nessun altro. Ma i miei amici cosa penseranno? Ma perché lo devo fare?

Basta.

Mi siedo e prendo fiato in questo annegare di pensieri contorti. Dopotutto, per chi dovrei farlo se non per me stessa? Mi preparo automaticamente, cercando di placare il tormento interiore. Fino all’ultimo minuto però, forzo me stessa a credere in un qualcosa che ancora non so. Tremo leggermente, sono spaventata ed emozionata, come fosse un grande ritorno a casa dopo tanto tempo. E in parte è così. Non comincio io, avendo quindi modo di familiarizzare e connettermi con ciò che mi circonda. La corda viene recuperata, tolgo il piumino che riporrò nello zaino e prendo in mano le picozze. Si comincia.

Tic, tac tac, ed è come andare in bicicletta. I metri scorrono sotto di me e i movimenti si fanno più fluidi ogni minuto che passa, la mente riposa, libera dal terrore di non essere all’altezza. Da qui in poi tutto fila liscio, e moderatamente nei tempi. Da qui in poi inizia ciò che corrisponde all'osservabile. O qualcosa di simile, insomma.

© Marta Corrà

L’osservabile spesso lo conserviamo, e a volte condividiamo, attraverso scatti fotografici dai quali però, difficilmente, emerge un completo quadro emotivo. Con un’immagine che custodisce gelosamente tutta la nostra più intima e complessa esperienza, talvolta ci esponiamo al mondo in un istante, con un singolo glorioso istante che non lascia spazio all’interpretazione.  

Tutto quello che una foto non può mostrare è racchiuso nelle nostre storie. Ciò a cui assistiamo ultimamente, nella comunicazione digitale di imprese alpinistiche, pare un unico susseguirsi di successi, vette raggiunte e sintetiche descrizioni delle difficoltà tecniche incontrate. Sono rari i momenti in cui spendiamo qualche parola “di troppo” per far conoscere al lettore o ascoltare che sia, i contorni di vittorie e rinunce: paure, frustrazioni, smarrimenti, perseveranza, tempo e tanto ma tanto lavoro su noi stessi. Senza tutto questo, anche la migliore delle soddisfazioni risulterebbe insipida.

Siamo sicuri di poter continuare a fingere, a condensare il lungo viaggio che ci porta alla meta con la meta stessa, quasi fosse l’ennesima spunta di un’interminabile lista che non ci basterà mai? Siamo sicuri di non voler provare a comunicare a noi stessi e agli altri, se mai lo volessimo, quanto essenziale sia inciampare e imparare, al di sopra della conquista? Che quello di cui ci nutriamo non sono performances, gradi e trionfo, ma l’impagabile sorpresa di riprovarci di nuovo ogni volta, nonostante i momenti di sconforto, e trovarci sempre più arricchiti?  

Forse la verità è che smetteremmo di guardare alle vite degli altri bramando il confronto e temendo il giudizio, se ognuno cercasse, nella propria storia personale, perché e per come fin lì ci è arrivato. 

© Marta Corrà