Abituati a cadere. Intervista a Amedeo Cavalleri

Dall'esperienza del collettivo Brocchi sui Blocchi, un libro generazionale divertente, umile e sincero per trovare il proprio modo di vivere l'arrampicata, riflettendo sul futuro della società e del pianeta.

Fisico asciutto, sguardo vispo, Amedeo Cavalleri ha presentato al Salone del libro di Torino, nella Sala della Montagna, il suo primo libro, Abituati a cadere (pp. 196, euro 17,90, De Agostini 2024), con la prefazione di Jacopo Larcher. Arrivava dritto dal Melloblocco, con il piglio determinato di chi si è schiarito le idee a suon di cadute. Tutto quello che racconta, infatti, lo ha sperimentato sulla sua pelle: successi, fallimenti, gioie, sfide – con se stessi, con la società – di cui l’arrampicata si fa perfetto simbolo. Ne nasce un libro generazionale, come lo definisce lo stesso autore, umile, divertente, sincero, che parla agli avambracci “ghisati” e alle mani infarinate di magnesite dei molti che, come lui, hanno trovato nell’arrampicata una maestra di vita, una via di fuga, un modo per riconnettersi alla natura e soprattutto un’esperienza da condividere. Tutto questo insieme o separatamente.

Condivisione è una delle parole chiave: Amedeo Cavalleri, bresciano di Gavardo, classe 1992, ha infatti fondato il collettivo@brocchisuiblocchi, versione Instagram di un gruppo Whatsapp che risale al 2016, un gruppo di amici ben rodato, che si ritrova a scalare assiduamente, cercando un proprio modo per farlo. Alcuni “brocchi” fanno capolino fra le pagine, come Roberto Mor, Davide Borgogno, Alessia Iotti, Nicolò Pesce e Dario Cressoni. Agli aneddoti e al racconto delle proprie esperienze, si alternano i pensieri di una generazione in cerca della sua strada, di un nuovo spazio, di nuovi concetti, di nuovi modi di affrontare la realtà, che sia in parete o in ufficio, ma sono davvero molti gli spunti di riflessione. Alla fine, oltre ai ringraziamenti, compaiono anche alcuni consigli di lettura: ogni nuova generazione lo sa che deve qualcosa a chi è venuto prima. Sa anche che non c’è novità senza rottura. Ma stavolta la sfida è esistenziale: e al centro non c’è più solo l’essere umano, ma anche il pianeta. 

Amedeo Cavalleri. Foto di Roberto Mor

Amedeo Cavalleri, il tuo punto di vista è quello di un’intera generazione, i Millennial, applicato al mondo dell’arrampicata in maniera molto consapevole.

Questo è un libro generazionale. Ogni generazione ha avuto il suo modo di arrampicare, qui io parlo di come noi Millennial possiamo trovare il nostro, fuori dalle logiche capitaliste del nostro tempo. Non ne esiste uno solo, e cambia negli anni. L’arrampicata ci può aiutare a stare bene. Racconto infatti la fragilità di una generazione e per farlo mi sono ispirato alle scrittrici che sono più capaci di descriverla, perché l’arrampicata di cui parlo io non è un’impresa eroica, anzi, il mio intento è quello di decostruire l’arrampicatore, senza nascondere le sue paure.

Ricorrono alcune parole chiave: se dico amicizia e condivisione?

Nel libro condivido non solo le mie esperienze, ma anche tutti i concetti sviluppati come collettivo. Il confronto è crescita, affrontare insieme i vari problemi ci aiuta a capire meglio come risolverli. “La felicità è reale solo se condivisa” diceva Christopher McCandless. Nel mondo dell’iper-digitalizzazione abbiamo bisogno di una condivisione reale. La montagna è reale: ti insegna la fatica e la fatica ti riporta in un mondo di piaceri non sintetizzati. 

Ossessione?

L’arrampicata ti chiede tanto, e per questo può sfociare in un’ossessione. Bisogna cercare l’equilibrio perduto per trovarne uno nuovo, e tornare a divertirsi in questa società performante che ci misura solo con i numeri e i risultati, dove il rischio è proprio quello di applicare a qualcosa che ci piace le stesse logiche da cui fuggiamo. Perché sicuramente l’arrampicata è una fuga, essendo qualcosa che fa stare bene, per questo io capisco chi cade in questa ossessione e non lo giudico. Il problema è la degenerazione, bisogna stare attenti a non focalizzarsi solo su quello, anche perché è uno sport che porta facilmente all’infortunio, e poi si finisce a non poter più scalare per molto tempo, ottenendo l’effetto contrario. Bisogna cercare di conoscere noi stessi e chiederci cosa cerchiamo attraverso l’arrampicata. Per me all’inizio è stata una via di fuga da una vita in cui mi sentivo un fallito. Oggi, con il progetto dei @brocchisuiblocchi, è diventata un modo per esprimermi e mi aiuta anche a mantenere il giusto equilibrio con il lavoro (la comunicazione digitale nell’ambito sostenibilità, NdR).

Brocchi Sui Blocchi. Magic Wood. Foto di Roberto Mor

Cos’è per te la montagna?

In montagna ho iniziato ad andare con i miei. Siamo sempre più civilizzati ma i luoghi alpini sono sempre meno abitati. La montagna è principalmente natura e ci riporta a una realtà con cui confrontarci, dove trovare ostacoli da superare: ci fa stare bene, ma ci ricorda anche i nostri limiti.

Quando si inizia ad arrampicare, “ti ritrovi ad avere venti insegnanti, ma nessun maestro”, parole tue. Sei diventato tu, il maestro di te stesso? 

Non mi sento un maestro e non ne ho mai trovato uno, alla fine. Tanti mi ispirano, come Jacopo Larcher che ha scritto la prefazione, con le sue scelte e il suo modo di vivere l’arrampicata. Sono molte le persone che nella mia vita mi hanno dato dei pezzi che poi io ho messo insieme e fatto miei, ma un maestro è colui che ti prende per mano e ti accompagna e a noi come gruppo questo è mancato. Abbiamo imparato tutto un po’ alla volta. Forse però la mia generazione, rispetto alle altre, ha anche capito che gli insegnamenti che andavano bene prima oggi sono superati, hanno distrutto il pianeta e l’equilibrio fra l’uomo e la natura. La nostra generazione deve essere maestra di se stessa, trovando un proprio modo sostenibile di affrontare le nuove sfide globali, come l’intelligenza artificiale.

Spicca all’inizio la dedica ai falliti, con esplicito riferimento a Gian Piero Motti, che fa il tandem con il titolo: cadere è la paura più immediata di chi arrampica. Perché parlarne?

Il fallimento da noi in Italia è visto particolarmente male, invece insegna che ogni volta che cadi puoi imparare a risalire. Quando tutto va bene non ci si interroga più di tanto, ma dal dottore vai quando pensi di avere un problema, no? Il fallimento ci porta a fare molti tentativi per migliorarci e l’arrampicata ce lo fa capire bene. Per questo ho ripreso quella frase di Gian Piero Motti: “Se non dovessi più arrampicare sarei un fallito”. E la risposta di Guido Rossa che lo invita invece a “tornare giù in mezzo agli uomini”. Dobbiamo chiederci dove vogliamo mettere le nostre energie: ci basta sentirci felici solo quando arrampichiamo, ma vivere come dei falliti nella vita di tutti i giorni? O vogliamo rinunciare ad essere dei fenomeni nell’arrampicata, ma fare la nostra parte nella società? Io penso che non esistano dei falliti, ma solo persone in cerca di un proprio posto nel mondo.

Brocchi Sui Blocchi, Magic Wood. Foto di Roberto Mor