Da destra: Gian Piero Motti, Enrico Camanni e Roberto Mantovani in Val Grande di Lanzo - ©G. RinaldiMetà giugno 1983, fa caldo quando Gian Piero Motti passa alla Rivista della Montagna. Ogni tanto sale le scale a passo lieve, sguscia in redazione e chiede di me e Roberto Mantovani; se è in vena si ferma, altrimenti un ciao e via. Stavolta va di fretta, lo salutiamo e non c’è già più.
Giorni dopo sono a casa quando squilla il telefono.
«Pronto» rispondo.
Un sussurro, di là del filo.
«Chi sei? Non si sente!»
«Sono Roberto…»
«Ah, Robi, tutto bene?»
«No, non va bene.»
Un sospiro e poi di fila:
«Èmortogianpiero.»
«Che cos’hai detto?»
«Gian Piero.»
Il vuoto, un baratro.
«Gian Piero?»
«Sì, Gian Piero.»
Continuiamo a pronunciare il suo nome, inebetiti.
«Dove?» chiedo dopo un minuto assurdo.
«In Val di Lanzo, una strada isolata.»
«Allora si è ucciso?» Cala il silenzio, sale il mistero.
Roberto è per il no, io sento che l’ha fatto. Spesso GPM flirtava con questa e altre vite, lasciando intendere una missione a termine. Poche ore dopo i carabinieri confermano il suicidio e precisano che il corpo è requisito per gli accertamenti legali. Dunque non parteciperà alla cerimonia funebre, ironizzo. Misero sollievo: niente cassa, niente lacrime.
«Ti rendi conto?» nota Roberto.
«Sì, l’ho pensato anch’io.»
«Chissà da quanto tempo…»
«Aveva programmato tutto.»
Gian Piero Motti aveva deciso di andarsene a 36 anni come il suo Gervasutti. Aveva scelto la notte più breve dell’anno, quando la luce resiste stoicamente all’oscurità. Lui sapeva già la data e il posto – dove muore il crinale del Bellavarda –, ma quand’è passato alla Rivista non abbiamo capito l’urgenza. Sembrava il solito saluto, ed era un addio.
Il nostro fratello grande, cazzo! Siamo bimbi sgomenti. Orfani. Continuo a pensare a sua madre e alla sua camera, i libri in ordine, l’Olivetti, lo stereo quasi sempre acceso. Un giorno aveva dato fuoco al passato ma non era bruciato niente. Continuava a cercare il mito originario, come Pavese: «Qui la legge è il nevaio, la bufera, la tenebra. E quando viene il giorno chiaro e tu ti accosti leggera rupe, è troppo bello per pensarci ancora…».
Poi la canicola disperde colori e suoni e alla cerimonia siamo muti. Era già successo nel 1946, quando Motti nasceva, il Fortissimo precipitava e gli alpinisti torinesi si raccoglievano attorno a un vuoto. Ora la scena si ripete con i sopravvissuti del Circo Volante, i sacerdoti della Scuola Gervasutti e i pionieri dell’arrampicata sportiva: i romantici, gli irriducibili e i disincantati. È la prima volta che ci troviamo assieme, e sarà anche l’ultima. Nell’imbarazzo collettivo invochiamo l’aria delle Alpi, quel bel vento che spazza e consola.