Walter Bonatti in vetta al Cervino (foto intera) © Hermann GeigerNel febbraio del 1965 Walter Bonatti decise di concludere la sua carriera nell'alpinismo estremo con un'impresa senza precedenti: l'apertura di una nuova via sulla parete nord del Cervino, in solitaria e in condizioni invernali. Questa sfida rappresentava non solo un tributo al centenario della prima ascensione della montagna da parte di Edward Whymper nel 1865, ma anche un confronto finale con se stesso e con i limiti dell'uomo di fronte alla natura.
Il primo tentativo
Il 14 febbraio 1965, Bonatti, insieme a Gigi Panei e Alberto Tassotti, iniziò l'ascesa della temuta parete nord del Cervino. La montagna, però, aveva in serbo un'accoglienza tutt'altro che pacifica: una violenta tempesta li colse di sorpresa, costringendoli a un bivacco forzato di 24 ore su una stretta cengia, mentre raffiche di vento a 100 chilometri orari e polvere gelata li avvolgevano senza tregua. In quelle ore interminabili, la montagna sembrava voler mettere alla prova la loro determinazione.
La decisione di ritirarsi fu sofferta ma necessaria. La discesa si trasformò in una lotta per la sopravvivenza: 400 metri di calate a corda doppia nella bufera, con il vento che urlava nelle orecchie e il gelo che mordeva la pelle.
La solitaria
Nonostante l'esperienza traumatica, Bonatti sentiva che il suo legame con il Cervino non poteva concludersi così. Così, attesa una finestra meteo buona, il 18 febbraio 1965, con il cuore colmo di determinazione e rispetto, iniziò la scalata in solitaria. I suoi compagni, richiamati da impegni di lavoro e familiari, non avrebbero potuto accompagnarlo in questo secondo tentativo. Bonatti si arrabbio, protestò, rimuginò e alla fine decise: “andrò solo”.
Tre amici, Guido Tonella, Mario De Biasi e Daniel Pannatier, lo accompagnarono fino alla base della parete, poi la solitudine fu totale. Solo lui e la montagna, fredda e in ombra, incrostata di ghiaccio.
Le giornate successive furono un susseguirsi di sfide per Bonatti. La parete nord del Cervino, con le sue ombre minacciose e il silenzio interrotto solo dal sibilo del vento, metteva alla prova ogni fibra del suo essere. Le giornate sembravano interminabili, così come le difficoltà della via. In quei momenti Bonatti non era solo. Con sè aveva l'orsacchiotto zizì, donatogli dal figlio dell'amico Daniel Pannatier. Zizì fu il suo unico compagno di cordata in questa salita che lo vide impegnato per 5 giorni con 4 gelidi bivacchi dove le temperature scendevano anche a -30 gradi sotto lo zero. Inoltre si era diffusa la voce che il “re delle Alpi", volesse chiudere con una salita di primordine la sua carriera verticale. Così ecco che negli ultimi giorni di scalata un aeroplano aveva iniziato a volteggiare attorno alla parete, alla ricerca del puntino solitario di Bonatti in movimento. Un uccello fastidioso, lo descrisse Bonatti, che infastidiva la sua salita solitaria, il suo rapporto con la grande parete dove ogni movimento doveva essere preciso.
Per la scalata Bonatti aveva deciso di muoversi in autosicura lungo la parete, una tecnica lunga che l'avrebbe portato a scalare 3 volte la parete: 2 in salita e una in discesa, come descrisse lui stesso. “Procedo in parete in questo modo. Aggancio prima il sacco a un chiodo, così come si assicurerebbe un compagno di cordata, poi mi arrampico per un’intera lunghezza di corda, che è di circa quaranta metri. Al termine di questa lunghezza fisso il capo della corda a un altro chiodo, quindi mi calo fin giù al sacco, per caricarmelo sulle spalle e rimontare fino al punto raggiunto. Naturalmente faccio questo levando via via i chiodi piantati. Con questo sistema di progressione tempo e fatica non hanno misura. Per arrivare alla vetta scalerò il Cervino almeno due volte in salita e una in discesa”.
L'abbraccio alla croce di vetta, un addio e un nuovo inizio
Il 22 febbraio, dopo cinque giorni di lotta incessante, Bonatti raggiunse la vetta. Ad accoglierlo, la celebre croce di vetta della Gran Becca, come anche viene chiamato il Cervino. In un gesto spontaneo, la abbracciò, sentendo in quel freddo metallo il calore di un amico ritrovato. La strinse come se avesse un'anima. Era il suo modo di salutare l'alpinismo estremo, di ringraziare la montagna per le lezioni impartite e di aprire un nuovo capitolo della sua vita. Un profondo atto d'amore verso la montagna.