Alexander Huber 25 anni fa, su Bellavista © Facebook Alexander HuberPassata l’alba del nuovo millennio, sta iniziando il marzo del 2000 quando Alexander Huber affronta sette ore di marcia nella neve inconsistente per raggiungere la base delle Tre Cime di Lavaredo. Sa che le vie storiche artificiali sono state quasi tutte superate in arrampicata libera, dunque per fare di più bisogna pensare a una nuova via. Già che c’è punta al massimo: un itinerario nuovo, in solitaria, in inverno, nel frigorifero del versante nord e attraverso il soffitto più spaventoso, il grande tetto centrale della Cima Ovest che Riccardo Cassin e Vittorio Ratti avevano aggirato sulla destra nel 1935. “Non volevo tracciare una nuova direttissima in parete. La linea doveva essere naturale, volevo usare chiodi normali sulle lunghezze di corda e chiodi a espansione solo per rinforzare le soste”.
Il primo tentativo
Cinquanta chili di zaino sulla schiena. Arriva esausto sotto le rocce e si sgola la lattina di birra che era destinata alla vetta in caso di successo. Per il freddo e l’alcol gli cedono le gambe, si sdraia sullo zaino in mezzo alla neve e ribalta gli occhi verso lo strapiombo: “Da dove dovrei cominciare? Il mio campo base è un buco di due metri sotto la parete. Proprio sotto il tetto. Guardando su capisco che in realtà è indifferente dove comincio, tanto sembra tutto uguale... È strano scalare da solo una grande parete. Nessuno che ti dica niente, nessuno che ribatta ai miei commenti…” La prima lunghezza di corda si rivela una delle più pericolose, perché Huber colleziona una serie di protezioni aleatorie e non c’è modo di riposare. Tornare indietro è impossibile, andare avanti è una roulette. Poi finalmente gli entra un chiodo a prova di bomba, “che rassicurerebbe perfino una società di polizze assicurative”. Per il momento basta, il sole tramonta; è ora di calarsi alla truna e al sacco a pelo.
La gelida mattina del secondo giorno lo vede appeso al soffitto come un pipistrello. Indossa scarponi pesanti e guanti perché s’è stancato di gelare. Procede in artificiale con tutti i ferri del mestiere – chiodi, martello, gancetti metallici, staffe, friend e blocchetti da incastro –, ma le fessure sono così avare che entrano solo i chiodi a lama sottile. Ogni metro è un lavoro duro, comunque Alexander progredisce. “Impiego più di un’ora a superare dieci metri. Un chiodo peggio dell’altro! Quando carico il peso trattengo il respiro: ogni volta una scossa di adrenalina… Tintinnio metallico. Sto cadendo. Il mondo è rovesciato! Penzolo nel vuoto sotto il grande tetto di Cima Ovest: ha retto solo il punto di sosta, tutti gli altri chiodi sono saltati via…”
La volta buona
Basta, ne ha abbastanza. Huber raccoglie le sue cose e scende a riposare e a scaldarsi, fa rifornimento di ferri e torna dopo pochi giorni. Ora la scalata non ha più segreti e il tetto di Cima Ovest è solo più questione di chiodi, purché giusti; in una mattinata di “lavoro” riesce a raggiungere il punto massimo del primo tentativo e a regolare l’ottava lunghezza di corda che lo aveva respinto, emergendo finalmente dall’ultimo strapiombo. Poi calza le scarpette, batte le mani per riattivare il sangue e continua in libera. Bivacca su un terrazzino ghiacciato. Il secondo e ultimo giorno raggiunge la via di Riccardo Cassin, incontrando neve fresca e vetrato in quantità. Ma ormai il peggio è passato e nel fugace bacio del sole pomeridiano il bell’Alexander esce dalla parete a pochi passi dalla vetta: è nata la via Bellavista.