.JPG)
Lo Scarpone ha intervistato gli alpinisti Simon Messner e Martin Sieberer che a luglio hanno realizzato una prima assoluta di una delle vette più alte del mondo ancora inviolate, lo Yernamandu Kangri, stimata tra i 7.163 e i 7.180 metri. Una vetta senza pareti facili, dove sul versate ovest i due hanno portato l’alpinismo tecnico a una quota davvero considerevole. Il tutto in una stagione segnata da pessime condizioni, che ha costretto a rinunciare molte spedizioni commerciali sugli Ottomila della zona. Il segreto dei due, velocità e leggerezza, per cogliere l’unica finestra di bel tempo senza neppure aver avuto il tempo di acclimatarsi adeguatamente.
Avete salito una delle montagne del globo più alta ancora inviolata, come è nata questa idea?
Dello Yernamandu Kangrine avevamo iniziato a parlare qualche anno fa, dopo un’esperienza in Nepal, per vivere qualcosa di diverso. Non sapevamo però come arrivare lì, inizialmente pensavamo fosse più inaccessibile, poi abbiamo scoperto che dal lato sud, dal lato del Masherbrum era più velocemente raggiungibile. Nessuno era stato lì da 20-30 anni e quindi è stata una grande avventura.
È stata un’idea nata un po’ da entrambi, condividiamo del resto una stessa concezione di alpinismo. Per entrambi era importante il fatto che la cima non fosse mai stata scalata. Se guardi a ciò che succede oggi in Karakorum, con migliaia di persone ai campi base del K2 e degli altri Ottomila, ecco per noi questo non è più alpinismo, è solo turismo.
Siamo sempre stati affascianti dalle ascensioni tecniche ma per noi era molto importante trovare qualcosa che fosse anche in alta quota, volevamo vedere come avrebbe reagito il nostro corpo a quote elevate scalando su terreno abbastanza tecnico. Non ci sono molte montagne di 7000 metri così tecniche. Abbiamo compiuto 3000 metri di dislivello in tre giorni, siamo stati molto veloci nonostante non fossimo molto ben acclimatati. Fare ascensioni di questo tipo in così poco tempo può funzionare solo essendo molto veloci, grazie a un’ottima forma fisica. Stare più in quota avrebbe comportato la necessità di essere acclimatati meglio, per trascorrere notti in quota senza stare male i giorni successivi ma non ci avrebbe concesso di sfruttare l’unica vera breve finestra di bel tempo della stagione.
Quest’anno c’era molta neve in Karakorum, molte spedizioni non sono riuscite a andare in vetta sulle montagne della zona, siamo stati bravi a cogliere l'attimo, ma le condizioni non erano comunque ottime, la neve non era ben trasformata e portante e c’erano molti crepacci sul ghiacciaio, è stato complicato trovare un percorso sicuro.
Cosa è stato, una volta sul posto, aderente a ciò che vi aspettavate da casa e cosa invece era diverso rispetto alle aspettative?
La neve non era buona come ci aspettavamo, non era ben trasformata è questo ha reso tutto molto più duro. Siamo stati molto fortunati però per il fatto che l’avvicinamento alla montagna è andato tutto bene a livello di salute, in genere durante l’approccio a queste grandi montagne è facile incontrare quei piccoli problemi di salute che non ti permettono di essere da subito operativo sulla montagna invece è filato tutto liscio. Abbiamo invece forse sottostimato lo sviluppo del percorso, che alla fine si è rivelato di oltre venti chilometri.
Quale è stato il momento più difficile della spedizione o quale il momento chiave in cui vi siete detti “ok, ormai “è fatta”?
Crediamo che l’ultimo giorno sia stato molto molto interessante, abbiamo avuto una pessima notte, avevamo un seracco che scaricava sopra il nostro campo e quindi non siamo riusciti a dormire, il giorno seguente la neve era brutta, affondavamo ogni due metri, e quindi abbiamo iniziato a dubitare della possibilità di farcela. Poi però ci siamo parlati, abbiamo reagito e siamo riusciti a andare oltre, a convincerci che potevamo farcela. La parete finale è alta 600 metri e molto ripida, molte parti erano ghiacciate e noi non avevamo una corda, la parte più difficile è stata il fatto che, dopo la vetta, abbiamo dovuto ridiscenderla arrampicando, non avevamo più energie, dovevamo essere veloci e quasi ci addormentavamo mentre arrampicavamo scendendo. Le temperature stavano salendo, l’ultimo giorno al campo base aveva piovuto fino a 6000! Ci stiamo accorgendo che il clima sta cambiando anche in Karakorum: lì di solito non c'era il monsone e invece quest’anno sembrava ci fosse una stagione delle piogge anche lì, con tante nevicate e piogge anche in quota.
Vi siete mossi con zaini leggerissimi, praticamente “una solitaria a due”. Del materiale portatovi per la spedizione, c’è qualcosa che vi siete detti “avremmo potuto lasciarlo a casa” e qualcosa che invece è mancato?
Abbiamo portato a testa un litro di acqua, una barretta e una giacca in piuma. Da un lato riteniamo che se avessimo portato più peso non avremmo raggiunto la vetta, dall’altro lato forse la parte sul ghiacciaio e la discesa dalla pala finale sono state state davvero troppo pericolose senza corda. Portarla avrebbe significato tre chili di peso in più: possono sembrare pochi ma forse con quel peso supplementare non avremmo avuto abbastanza energia per raggiungere la vetta. Ma sì, probabilmente però la prossima volta, almeno una corda la porteremo. Corta.
Da quanto fate cordata insieme? Come vi siete conosciuti e quali ritenete i vostri principali traguardi raggiunti?
Ci siamo conosciuti 4 anni fa, nel tour di preparazione per la salita in Pakistan in 2019. Durante quella spedizione ci siamo trovati molto bene e da allora, abbiamo scalato molto, in Dolomiti, sul Cervino dove abbiamo fatto la Via Bonatti, in Oman e in altre occasione dove ci siamo trovati per scalare e divertirci insieme.
Simon Messner e Martin Sieberer in un momento di riposo nella loro tenda durante la salita del Yernamandu KangriAvete dei progetti “vostri” per il futuro?
Abbiamo molti progetti insieme. Siamo molto presi entrambi dal nostro lavoro (ndr Simon gestisce un maso di montagna e Martin è guida alpina) ma abbiamo già pianificato sia spedizioni che salite vicino a casa, in Dolomiti. Il tempo a disposizione per entrambi è poco, ma sicuramente già in settembre in Dolomiti abbiamo un bel progetto, una parete dal lungo avvicinamento ma non così lontana da casa. Il nostro approccio è quello di parlare dei nostri progetti solo dopo averli realizzati, non ci piace molto l'idea di dichiarare prima gli obiettivi per raccogliere l’attenzione dei media o degli sponsor. Preferiamo prima agire e poi raccontare. »
Guardando a ciò che succede sugli Ottomila, ritenete che oggigiorno l’alpinismo himalayano di punta si sposterà sempre di più verso cime di quote minori con impegno tecnico maggiore? Le folle di persone sugli Ottomila soffocano gli spazi per l’alpinismo di punta a quelle quote? O c’è ancora spazio e modo?
Pensiamo che sugli Ottomila ci sia ancora molto spazio, ma ovviamente bisogna stare fuori dalle rotte delle vie normali usate dalle masse. Ci sono migliaia di persone attualmente su quelle montagne e questo semplifica di molto la salita . Ma è solo turismo, o non sappiamo come altro chiamarlo, ma di certo non è alpinismo. Non ci piace l’idea di condividere il campo base con una folla. Vogliamo essere da soli nel prendere le nostre decisioni. Ci sono ancora molte vie difficile sugli Ottomila che non sono state ripetute, aperte negli anni 70 – 80, è anche solo percorrerle nuovamente rappresenterebbe un grande exploit. Una Magic Line al K2 per esempio, ad oggi è ancora irripetuta, sembra quasi che su quelle montagne il vero alpinismo stia ormai dormendo da qualche anno. »
La vostra salita ha forse il vantaggio di essere relativamente più spiegabile a un grande pubblico, cosa a volte rara nelle spedizioni extraeuropee odierne. La cronaca alpinistica attuale dovrebbe cambiare a vostro avviso? È possibile spostare il focus dal "cosa” al “come”?
Sicuramente il concetto di cima mai pestata da qualcuno è più facilmente comprensibile anche da un pubblico non tecnico. Oggi la distanza tra quello è che il vero alpinismo di punta e l’attenzione dei media generalisti è aumentato rispetto al passato. Raccontare a un pubblico non tecnico cinquant’anni fa che una cima era stata salita la prima volta era molto più facile che parlare oggi di una parete molto tecnica su una cima di 6000 – 7000 salita in stile alpino, senza supporto di portatori d'alta quota e in stile veloce. Oggi il pubblico crede ancora che il massimo limite siano gli Ottomila, e quindi la quota come unico parametro nel valutare un’ascensione: ovvio che conta ma ci sono molti altri fattori. Il “cosa” è facile da spiegare, il tempo di salita forse anche, ma il “come”, quindi in che stile, se in autonomia o con il supporto di portatori, elicotteri e corde fisse, beh… su quello c’è ancora tanta carenza di informazione.
Il Masherbrum per esempio è una così bella montagna ma, per il fatto di essere pochi metri più basso della magica cifra “8000”, ha visto pochissime ascensioni nonostante sia una salita con i controfiocchi.
Il punto è che un’alpinista deve capire se scala per sé stesso o per gli altri. La maggior parte delle persone sugli Ottomila oggi scala per gli altri, non per sé stesso.
Sicuramente il ruolo di voi giornalisti, specializzati in primis, è importante: siete in prima linea nel far comprendere quali sono oggi i limiti estremi dell’alpinismo odierno e quali ascensioni lo stanno davvero spingendo in là. Spesso invece viene dato spazio ad ascensioni che non rappresentano alcun passo in avanti per l’alpinismo odierno.
Simon Messner durante la salita del Yernamandu Kangri