Tommaso Lamantia in vetta al K2 © Tommaso LamantiaVaresino, 42 anni, a giugno di quest’anno è partito alla volta del Pakistan come componente della spedizione alpinistica del CAI Biella. Con lui Gian Luca Cavalli, Donatella Barbera, Matteo Sella, Cesar Rosales e Dario Renieri. L’obiettivo? Il K2, pare quasi scontato dirlo nell’anno del 70esimo anniversario. Ben diverso è invece scalarlo, e Tommy, come lo chiamano tutti, lo sa bene.
Accademico del CAI e tecnico del Soccorso Alpino di Varese, il K2 per lui è stato il primo approccio al mondo dell’aria rarefatta, ma non a quello delle spedizioni. Nel 2018 in Patagonia riesce nella salita del Cerro Torre, per la Via dei Ragni. Questa volta invece ha scelto di alzare l’asticella, della quota, avvicinandosi al suo primo Ottomila. L’ha scalato, raggiungendo la vetta il 28 luglio alle 16.45 locali, senza utilizzare bombole di ossigeno e senza uso di portatori o aiuti esterni.
Tommaso, come nasce l’idea di scalare il K2?
Avrei voluto Salire il K2 per i miei 40 anni. Al tempo avevo condiviso l’idea con David Bacci, ma alla fine non siamo riusciti a mettere in piedi il progetto. Accantonata l’idea non ci ho più pensato, almeno fino a quando mi sono trovato a una riunione del Club Alpino Accademico Italiano Occidentale con Gianluca Cavalli che presentava la spedizione del CAI Biella. Così, sapendo che cercavano, mi sono subito proposto come fotografo e videomaker per la spedizione. Da qui al diventare un membro effettivo della spedizione, il passo è stato facile.
Per te è stato un bel salto dall’alpinismo, verticale e tecnico, a cui sei sempre stato abituato…
Non ho mai praticato un alpinismo finalizzato agli Ottomila, vero. Ma il K2 è diverso. È la montagna degli italiani, la piramide perfetta. Si potrebbe dire che racchiude quello che è il senso dell’alpinismo su grandi montagne. Poi non è una camminata. Cosa aggiungere? Ero curioso di provare.
Come hai vissuto questa esperienza?
Ho cercato di vivere il tutto con molta filosofia, come dicono i pakistani mi sono ripetuto più volte Inshallah – se dio vorrà –. Per riuscire in questa salita sapevo dovevano allinearsi molti fattori, la meteo, le condizioni della montagna, i compagni di cordata, io stesso non avevo idea di come mi sarei potuto sentire a ottomila metri.
Arrivati al campo base, come vi siete organizzati?
La nostra spedizione aveva i permessi di salita sia per il K2 che per Broad Peak. L’idea era quella di acclimatarsi sulla seconda, una montagna più bassa e più semplice, per poi concentrarsi sull’obiettivo principale. In realtà poi io ho deciso di rimanere sul K2, questo anche in seguito ai consigli ricevuti da Denis Urubko e Victor Saunders, due alpinisti con una grandissima esperienza himalayana.
In salita sul K2, sopra campo 3 © Tommaso LamantiaCosa ti hanno detto?
Che se il mio obiettivo era il K2, avrei dovuto concentrarmi su quello fin da subito e acclimatarmi li. Mi hanno anche detto che non è scontato salire un Ottomila e subito dopo salirne un altro. Così, mentre tutti hanno deciso di acclimatarsi sul Broad Peak, io ho preferito perseguire questa strada. Con me è rimasto anche Matteo Sella.
Inizia quindi la fase di acclimatazione…
Non è stato facile, viste le condizioni meteo della stagione che non ci ha dato tregua con molto vento e molta neve in quota. Io, con il mio approccio che non prevedeva lo stress, ho cercato di prenderla con filosofia. E in questo è stata d’aiuto la vicinanza del francese Benjamin Védrines, che viveva la condizione allo stesso modo: ogni volta in cui c’era la possibilità si provava ad salire. Fino a campo1, fino a campo 2 e, se possibile, anche più in alto.
Sfondare il muro di campo 2 non è stato per nulla facile, giusto?
Inizialmente io e Matteo ci siamo acclimatati sulla via Kukuczka, ridiscendendo in parapendio al campo base. Solo dopo abbiamo messo piede sullo Sperone Abruzzi con l’obiettivo di perfezionare l’acclimatazione e iniziare a trasportare verso l’alto il materiale utile alla salita. Per due volte raggiungiamo campo 2, rinunciando sempre anche solo al pensiero di andare oltre. Le condizioni erano veramente difficili. A questo punto decido di fare un giro sul Broad Peak.
Come mai?
Matteo era fermo al campo base a causa di un forte mal di denti, così ho pensato di unirmi agli altri. Parto dal campo base del K2 e salgo diretto fino al campo 2 del Broad Peak. Da qui, il giorno dopo, raggiungiamo campo 3 a 7000 metri. Impossibile andare oltre, la bufera ci avvolge e ci consiglia, saggiamente, di scendere.
Tommaso e Matteo Sella, pronti per una rotazione sulla via Kukuczka © Tommaso LamantiaA fine luglio, in modo quasi inaspettato, arriva la giusta finestra di bel tempo, quella del tentativo di vetta…
Io arrivavo da una settimana fermo a causa del mal di schiena, ma non potevamo lasciarcela scappare. Così il 26 partiamo dal campo base, diretti a campo 2. Arrivati ci siamo subito messi al lavoro per creare la piazzola dove fissare la tenda. Con Matteo avevamo deciso di non lasciarla montata, per evitare che il vento la distruggesse. Ricordo che siamo arrivati verso le 16 e tutte le piazzole erano già occupate, così invece di riposare ci siamo messi a lavorare. Non è stata una notte semplice questa: la piazzola era inclinata e non abbiamo dormito benissimo.
Al mattino siamo ripartiti, diretti verso campo 3. Una salita impegnativa, al seguito dei clienti delle spedizioni commerciali. Avevamo gli zaini carichi di materiale per allestire il campo e non riuscivamo a superare.
Da qui siete saliti direttamente in vetta?
Esatto. Siamo partiti intorno alle 2.30 del 28 luglio. Io avevo dormito poco e male, avevo alcuni problemi di stomaco che hanno reso la notte un infermo. Fuori il vento soffiava forte, ma siamo saliti comunque. Ogni tanto chiedevo a Matteo di riposare, e ogni volta in cui mi sedevo finivo per addormentarmi. Così fino all’alba, quando il sole ha iniziato a scaldarci.
Dal campo 4 siamo ripartiti alle 8 del mattino, ci aspettava il Collo di Bottiglia e poi, se tutto fosse andato per il meglio, la vetta. Saliamo bene, all’inizio, poi verso il grande seracco Matteo inizia a rallentare. Subito ho provato a incitarlo, a dirgli di tirare fuori le energie che ancora conservava. Alla fine ci siamo seduti e abbiamo parlato. In quelle ore dal campo all’inizio del seracco a 8200m Matteo aveva consumato le sue energie, stavo iniziando a preoccuparmi per l’orario di vetta. Così prendiamo atto della situazione: lui sarebbe sceso a campo 3 mentre io avrei continuato da solo.
Poi?
È come se avessi spento il cervello. Per me c’era solo la cima da raggiungere, un passo dopo l’altro. Il ritmo era costante e al limite delle mie possibilità. Non mi sono più fermato e alle 16.45 ero in vetta dopo aver percorso gli ultimi 400 m in 3h e mezza.
Com’è stato?
Quando sono arrivato, in cima c’erano ancora Zeb e Liv e per fortuna non erano un’allucinazione. Si stavano preparando a decollare con il parapendio, così li ho aiutati con la vela. Poi mi sono fermati a osservarli mentre se ne andavano leggeri nel vento, e li ho un po’ invidiati.
La cima è un posto unico, anche rilassante dopo tutta quella fatica ed essere rimasto da solo ha amplificato questa tranquillità. Ricordo di non aver provato molte emozioni, anzi. In quel momento ero concentrato sul da farsi. Ho fatto qualche foto e alcuni video, per documentare il momento, poi ho mandato giù due gel, l’unico liquido che avevo con me. Poco prima, rimettendomi la tuta d’alta quota a circa 8500 metri, la borraccia mi era caduta nel vuoto. Quindi ho iniziato a scendere.
L'ombra del K2 si allunga al tramonto © Tommaso LamantiaCom’è andata la discesa?
Direi bene. Ero concentrato nel non commettere errori. Nei tratti attrezzati inserivo il discensore e mi calavo, dove invece non erano presenti le fisse camminavo prestando la massima attenzione e cercando di rimanere vigile in caso di caduta. Poi di nuovo mi calavo. Così sono arrivato in 3 ore al campo 4, dove ho c’erano Marco Majori e Federico Secchi che avrebbero tentato la cima il giorno seguente. Salutati, ho proseguito oltre, verso campo 3, dove mi aspettava Matteo.
Quando ho raggiunto il traverso sopra campo 3, non attrezzato con le corde, ho dovuto aumentare la concentrazione. Ero molto teso perché ormai era buio e avevo il terrore di perdermi. Con la frontale ho ripercorso quei 200 metri cercando di ricordare il percorso fatto al mattino. Alle 21.30 sono arrivato in tenda, dove finalmente ho potuto bere alcuni piccoli sorsi di acqua, prima di addormentarmi.
Il giorno dopo abbiamo poi continuato la discesa insieme, io e Matteo, raggiungendo la base dello sperone. Ad aspettarci, al campo base avanzato Pietro, il papà di Matteo e Leonardo. Ci siamo abbracciati, ci hanno rinfocillato e poi siamo rientrati al campo base.
Ora che l’hai fatto, che sei arrivato in cima al K2, vorresti provare altre montagne di ottomila metri?
Non sono ancora così attratto da questo tipo di alpinismo, anche se penso che alcune sono più interessanti, come l’Annapurna e il Nanga Parbat. In generale ci sono molte montagne in giro per il mondo, che mi interessano molto di più. Vorrei, a esempio, tornare in Patagonia per salire il Fitz Roy. Ma tra qualche tempo, ora devo pensare alla famiglia.
Novità in arrivo?
Mia moglie è incinta, l’abbiamo saputo due giorni prima di partire per il K2. Lei è stata incredibile in questi mesi: incinta, a casa, teneva le comunicazioni con tutti. Io scrivevo solo a lei. È lei la vera eroina di questa storia. Ora sono già 5 mesi, la bambina dovrebbe nascere a febbraio.
Un’ultima cosa che vorrei fare è ringraziare tutte le persone che hanno reso possibile questa salita, tra cui anche gli sponsor Millet, Scarpa, DFsportspecialist, Blueice e tutti gli altri.